Una vita intranquilla
Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46
L’ultima pubblicazione di Miguel Benasayag e Teodoro Choen si intitola L’epoca dell’intranquillità: lettera alle nuove generazioni. L’elogio dell’intranquillità del filosofo argentino nasce dalla consapevolezza di una illusione della sicurezza. Tutte le ideologie legate alla sicurezza, dalla propaganda politica alla militarizzazione delle strade e delle scuole, altro non sono che una semplice illusione. Infatti, non hanno risolto la maggior parte dei problemi che avrebbero voluto risolvere con una espansione della videosorveglianza o dell’utilizzo della forza. Una sempre maggiore richiesta di sicurezza è alimentata da una narrazione dell’insicurezza che nasconde, dentro di sé, una certa accettazione passiva della sofferenza. Abbiamo bisogno di sicurezza, in altri termini, perché preferiamo soffrire in silenzio. Ma cosa soffriamo, di cosa soffriamo? Non di malattie, non di nemici, non di eventi imprevisti, ma della vita stessa. Perché tutta la sicurezza di cui possiamo essere capaci, altro non è che un tentativo di sedare la vita, di anestetizzare la vita per non farci soffrire, per evitare la morte, il grande tabù della nostra epoca. Allora, la tranquillità della vita sembra corrispondere ad una certa anestetizzazione dell’esistenza, dove al primo sussulto, al primo spasimo, alla prima domanda o curiosità, il mondo stesso sembra sbriciolarsi. Ed ecco, allora, l’Elogio dell’intranquillità, come sforzo, conatus, attività propria del vivente, del sentirsi vivo. Una intranquillità che va di pari passo con l’imperfezione, con la diversità dei corpi singolari, di questo corpo di carne che sono. Una intranquillità che apre alla relazione, che ci fa fare esperienza di un pastore che passa in rassegna le sue pecore. Nella solennità di Cristo Re, siamo messi dinanzi ad un Dio che passa in rassegna le sue pecore. Un gregge che sembra essere sempre identico a se stesso, in realtà si riscopre differente. Un discernimento operato fra pecore e pecora, fra montoni e capri, fra pecore e capri. Il gregge non è sempre identico a se stesso, non è un gregge sedato e al sicuro, ma un gregge che il Signore stesso passa in rassegna. Un gregge differente, un gregge in cui nessuna pecora è identica all’altra ma ogni pecora si assomiglia all’altra, con le sue imperfezioni, abilità e capacità. Ogni pecora, nella sua differenza, ciascuno di noi nella sua differenza, è una persona di cui Dio si prende cura. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia. E ciascuno di noi, al tempo stesso, è una persona di cui Dio si prende cura ma anche una persona che confida nel Signore, che si espone anche al rischio, che sa che la vita è anche rischio e non sicurezza passiva o tranquillità anestetica. Lo stesso salmista, infatti, ci ricorda che la sua sicurezza e la sua tranquillità sono nel Signore, non in una accettazione passiva e remissiva ma nell’abitare nella casa del Signore. Una fedeltà e una bontà che sono compagne di viaggio, anche nei momenti bui e difficili, e non semplice sicurezza psichica. Qual è il motivo per cui fidarsi di Dio? Il solo motivo è la resurrezione, come ricorda Paolo. L’esperienza della resurrezione che ciascuno di noi vive già, in cui siamo già risorti e in cui andiamo oltre l’esperienza della morte e delle morti che costellano la nostra società e la nostra esistenza, lì viviamo nella fede nella resurrezione. È un Cristo che regna non per mantenere la situazione attuale, ma perché ci fa rinascere dalle nostre fragilità, imperfezioni, debolezze, intranquillità, curiosità, domande. Quella resurrezione che vivono quelle persone che, nella parabola, si domandano: Quando mai ti abbiamo visto? Una domanda sconvolgente, perché implica anche coloro che non sapevano niente della resurrezione di Cristo, che non lo avevano visto o incontrato. Questo è lo scandalo della resurrezione, dell’esperienza di resurrezione che viviamo. Una esperienza di resurrezione che non è un bisogno di sicurezza ma un aiuto che offriamo agli altri: ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. La resurrezione è qui! In queste esperienze di aiuto all’altro, di liberazione dai gangli della morte, da tutto ciò che uccide e mortifica noi e le altre persone. Gli stessi criteri di verifica della resurrezione, il discrimine fra una vita da credenti e una vita da non credenti è in una professione di fede che ci vede in mezzo al gregge, fra le prove quotidiane della vita, fra ciò che possiamo essere e nell’aiuto che offriamo alle altre persone. In una domanda intranquilla, che non ci seda, che non ci fa accettare tutto in maniera acritica, che non ci offre sicurezza ma solo curiosità nei confronti delle persone, lì c’è il Cristo Re, il Cristo Risorto, l’esperienza del Dio Vivente.