Una città per le persone
Tornando alle giornate dell’Abbecedario della cittadinanza. Filosofia in comune del mese di maggio presso il Castello di Bisceglie, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare Carlo Cellamare dell’Università La Sapienza di Roma. Nella sua riflessione ci ricordava come la città fosse un prodotto etero diretto, ovvero che non viene più costruita dai cittadini ma dagli interessi economici e globali che orbitano intorno alle nostre città, formandole o deformandole. Nelle epoche passate, la città era un’opera collettiva della cittadinanza sia come la conosciamo oggi, siamo come si è evoluta durante il corso dei secoli. In questo senso, dunque, la città è rappresentativa della comunità stessa e la comunità si riconosce, attraverso i luoghi simbolici, dentro un tessuto comunitario che prende forma nei palazzi, nelle strade, nei mercati, nelle chiese, e così via. In questa linea, d’altronde, si è focalizzata anche l’architettura in quanto disciplina. Infatti, l’architettura non nasce come liberalizzazione dell’estro architettonico, quanto come modo per rappresentare i bisogni dei cittadini, per aiutare le persone a riconoscersi in una comunità che ha le dimensioni della città. Gradualmente, nell’epoca della globalizzazione, siamo passati dalle forme simboliche della città ad un prodotto di forze che caratterizza i tessuti urbani, forze prevalentemente economiche. E la complessa macchina amministrativa dei Comuni, solitamente non riesce neanche a gestire o ad intervenire sui grandi processi globali. Di qui deriva, la costruzione di grandi ipermercati dove meno li avremmo immaginati, oppure grandi centri commerciali fuori dalle città che da una parte modificano l’assetto del territorio, dall’altra svuotano i centri urbani, impoverendo i piccoli negozi. Le forze economiche, quando iniziano a gestire il territorio, producono condizionamenti funzionali del territorio, non più visto come grande opera comunitaria, ma semplicemente come algoritmi con cui le pubbliche amministrazioni hanno ancora una dura battaglia da affrontare. Infatti, in una organizzazione del territorio in chiave funzionalista ed economica, il primo elemento che viene a mancare è proprio lo spazio pubblico. Anche quando si costruiscono piazze, luoghi verdi, o qualsiasi altro tipo di standard urbanistico, ciò di cui si nota la mancanza è proprio della dimensione simbolica e culturale dello spazio pubblico. Il degrado delle piazze, come di qualsiasi altro luogo o arredo pubblico è frutto di una mancanza simbolica della sfera pubblica e difficoltà nella gestione amministrativa di aree pubbliche, soprattutto quando i cittadini stessi perdono interesse nella cura, nella presenza, nella gestione di spazi pubblici. Dove lo spazio pubblico è dal punto di vista simbolico, non è solo lo spazio o l’arredo urbano, ma la possibilità di dialogo, confronto, scontro, incontro. Tutti elementi che sia la macchina amministrativa comunale sia le forze economiche non possono produrre, dal momento che perseguono altri fini e hanno altre funzioni. Allora, per tornare alla dimensione pubblica dello spazio, trasformando gli spazi pubblici i luoghi simbolici di dialogo e di confronto c’è bisogno di tornare sul campo, di essere attivatori di processi, mettendo insieme alleanze locali che generino e rigenerino trasformazioni comunitarie delle città. Dagli spazi informali agli edifici abbandonati, passando per i piani urbanistici comunali, mettere insieme associazioni, movimenti, scuole, per creare un terreno comune per ripensare la vita in città e per ripensare anche la città stessa. Perché la grande sfida di ogni persona, oggi, è quella di ritornare a ripensare il suo modo di vivere all’interno della propria città, del come abitare i luoghi e i territori. Dinanzi alle forze produttrici e alla globalizzazione, corriamo sempre più il rischio dell’anonimato, alienati fino a sentirci parte di un immenso ingranaggio che conosce la violenza come solo linguaggio. Tornare alla dimensione pubblica e ripensare lo spazio pubblico partendo dal basso, significa lottare contro questo linguaggio violento, contro questa appiattente omologazione, contro questa mediocrità produttivista, per creare comunità e luoghi che ci rappresentino come comunità. Perché la città è e rimane l’intersezione delle vite delle persone, che vogliono rimanere persone.