Stranieri ovunque
Dt 4,32-34.39-40; Sal 32; Rm 8,14-17; Mt 28,16-20
La 60° Biennale d’Arte di Venezia ha come titolo Stranieri ovunque. Un titolo evocativo e denotato da una pluralità di significati. Infatti, incontriamo stranieri ovunque nelle nostre città e questo, spesso, ci allarma e cerchiamo politiche di sicurezza. Eppure anche noi siamo stranieri ovunque meno che nella nostra casa e nella nostra zona di comfort. Ma soprattutto, siamo stranieri ovunque a noi stessi, al profondo mistero che ci abita e che fa di noi degli esseri umani. Un profondo mistero che ci rende stranieri e che, oggi in modo particolare, il mistero Trinitario può aiutarci a riscoprire e a rendercene consapevoli. Siamo stranieri ovunque cerchiamo di andare, siamo anche etichettati come stranieri rispetto a delle cose che abbiamo fatto nella vita, alle volte siamo stati giudicati o giudichiamo pesantemente gli altri come stranieri. Ecco perché il tema dello straniero ci segue e insegue o persegue ovunque. Eppure, oggi, nella celebrazione della festa della Santissima Trinità non siamo solo portati a riconoscere che Dio è Uno e Trino, ma che nel suo essere comunione ci ha resi meno stranieri a noi stessi, ci rende meno stranieri fra di noi. Questa è la speranza dell’amore che chiediamo al Signore, che ci spinge ad interrogarci su noi stessi, a meditare le grandi opere di Dio, ad essere consapevoli che Dio ha fatto tanto per noi e che Dio si fa incontrare nelle tracce che lascia nella nostra storia. Del resto, le parole di Mosè al popolo di Israele riecheggiano proprio questa capacità di Dio di farsi prossimo, questa sua scelta di essere vicino al suo popolo, meno straniero di quanto egli sia a se stesso. Ecco, allora, che senso ha per Mosè ricordare le opere di Dio, ricordare come Dio stesso ha scelto di essere vicino al suo popolo e per ritrovare Dio occorre interrogare la storia. Interrogare quelle trame e tessiture in cui Dio si è fatto vicino, nella misura in cui quella estraneità che ci abitava e quell’estraneità che faceva parte dell’altro sono diventate, man mano, sempre più familiari. E, forse, esattamente in questo consiste la felicità: nel rendere familiare lo straniero che ci abita. Se lo straniero è quell’elemento che ci desta inquietudine e che dice la profonda verità di chi siamo, del nostro stesso essere stranieri ovunque, allora la felicità è quella capacità di familiarizzare con lo straniero che siamo, di fare i conti con esso, di meditare nel nostro cuore che quel Dio che è stato straniero per noi si è fatto familiare, si è fatto vicino, fino a renderci figli adottivi. Allora, comprendiamo meglio le parole di Paolo quando afferma che lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Siamo eredi di Dio e coeredi di Cristo, siamo figli e non schiavi, perché quell’essere straniero ovunque è diventato, nel corso della storia, familiare. Quel mistero di estraneità che ci abita, diviene familiare in Dio perché Dio stesso è comunione, perché Dio stesso ha deciso di essere familiare a noi, di renderci suoi familiari. In questo, allora, consiste anche il mandato di Gesù nel fare discepole tutte le genti. Non di spargere acqua benedetta dappertutto e convertire anche con la forza le persone o tentare modi per accaparrarsi qualche fedele in più, per fare proseliti. Battezzare tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, significa che in ogni luogo in cui ci sentiamo stranieri possiamo rintracciare e rinsaldare legami di familiarità, riscoprire l’amicizia e la comunità, lavorare per la pace e non cedere il passo alle logiche dell’individualismo e del conflitto. Significa trasformare lo straniero che mi abita non in un nemico ma in un amico, l’ovunque nel luogo in cui scelgo di abitare, la mia stessa vita in annuncio del mistero trinitario.