Se la popolazione cambia
In questi giorni mi è capitato di ascoltare la vice sindaca del Comune di Bologna, Emily Clancy durante un evento organizzato. Una giovane vice sindaca con delega a Casa e politiche per l’abitare, politiche ambientali e assemblea per il clima, pari opportunità e differenze di genere, diritti LGBT, contrasto alle discriminazioni, lotta alla violenza e alla tratta sulle donne e sui minori, economia della notte. Un elemento importante che ha posto in evidenza è come Bologna cambi, ogni dieci anni, un quarto della sua popolazione. Significa, in altri modi, affermare varie questioni a livello urbano. La prima questione riguarda la scala abitativa, la seconda la sostituzione di una popolazione anziana con una più giovane, la terza una sorta di transizione etnica dal momento che la maggior parte delle persone emigra verso Bologna e i bolognesi (se esistono!), come cantava Guccini: “ci sono o oramai si sono persi, confusi e legati a migliaia di mondi diversi”. Ciò che sta avvenendo a Bologna, avviene anche per numerose altre città, in un tempo di transizione generazionale e demografica. Il punto su cui vogliamo porre la nostra riflessione, suscitata da Clancy, è come le politiche dell’abitare ma anche le politiche di tutta la città, abbiano a che confrontarsi con un processo di transizione rapida, soprattutto per quanto riguarda la popolazione della città. Seppur l’abitato tenda a rimanere immutato nel corso degli anni, soprattutto per quanto riguarda le zone di interesse storico, ciò che cambia è la popolazione che, secondo le stime della Clancy, in quarant’anni potrebbe cambiare totalmente all’interno di una città. Questo grazie all’inverno demografico, come anche grazie alle migrazioni, non solo dall’esterno dell’Italia ma soprattutto interne, dal sud verso il nord o dal nord verso il centro. Bologna, dunque, diviene un esempio paradigmatico di come la popolazione non aumenti, ma venga sostituita, il che presuppone anche un cambio nel modo di pensare le città, non più in termini di consumo di suolo o di espansione ma di risignificazione dei luoghi. Non solo una risignificazione dei monumenti che raccontano una cultura radicata in un territorio, ma soprattutto una risignificazione delle politiche dell’abitare, degli orari e dei tempi di una città, del consumo e di alimentazione, del modo di formare una famiglia, dell’economia, del welfare. Insomma, guardare alla città come un processo non solo significa guardare i cambiamenti ma anche pensare ai cambiamenti sociali e culturali che una città mette in atto. Per questo motivo, un percorso di risignificazione dei luoghi ha bisogno di una ermeneutica che favorisca non la sostituzione, come molte persone tendono a propagare, ma una transizione che faccia dialogare, in maniera dialettica, le differenti culture ma, soprattutto, le differenti generazioni all’interno della stessa città.
Noi italiani siamo il risultato di stratificazioni etniche. Genti arrivate da conquistatori, come migranti, come colonizzatori. Tante culture si sono intrecciate, sovrapposte, confuse. A volte i conquistatori sono stati conquistati dalle culture preesistenti, a volte sono stati i portatori di progresso e hanno favorito la crescita economica e culturale. Non dobbiamo fare altro che riscoprire i nostri dialetti, salvaguardare la nostra lingua autoctona, al pari di un sito archeologico. Preservarla dall’omologazione anglofona. Scavare nella nostra lingua ci porta a riscoprire termini greci, latini,arabi, provenzali etc. Anche nelle nostre tradizioni gastronomiche è scritto questo scorrere e questo intreccio di culture.
Perché temere ciò che da sempre si è incessantemente verificato? Nella civiltà della comunicazione l’intreccio delle culture si realizza indipendentemente dalla migrazione dei popoli. La nostra curiosità e la capacità di tollerare la diversità filtrando il meglio ci permetteranno di costruire il futuro mettendo al centro il rispetto per il pianeta e il bene comune.