Sacro nel profano
Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13
Nell’opera Il chassidismo e l’uomo occidentale, il filosofo Martin Buber traccia una interpretazione importante della differenza fra sacro e profano. Ad un certo punto, afferma che nel chassidismo ebraico non c’è una separazione fra sacro e profano, ma il sacro è ciò che innerva ogni fibra del profano, del quotidiano. Ad un certo punto sono le istituzioni che bloccano il sacro e lo chiudono dentro un recinto in cui il profano non può entrare, in cui non può avere accesso. Si tratta di un sacro chiuso in se stesso, di un qualche che inizia a diventare per specialisti e per addetti al settore. Invece, per Buber, la religione ebraica e in particolare il chassidismo ha riportato la dimensione del sacro nella vita quotidiana, nel profano, santificandolo. La santificazione è esattamente questo processo di incontro fra sacro e profano, questo intessere il profano del sacro. Un elemento estremamente importante nella società occidentale, secondo Buber, in quanto implica anche la capacità di incontrare l’altro, di tessere dei legami con l’alterità, re-ligione appunto. Ed ecco perché alla crisi del sacro, secondo Buber, corrisponde anche una incapacità dell’essere umano occidentale di incontrare gli altri, preso dal proprio individualismo e dal proprio farsi e da fare. La religione, invece, in quanto legame è la capacità di dare del Tu all’altro e, in questo modo, poter dire Io. Con la lettura di Paolo alla comunità di Efeso, noi potremmo addirittura accentuare le parole di Buber, affermando che non solo il sacro santifica il profano, ma che la sacralità del Cristo è ciò che santifica il nostro stesso corpo. Predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. La predestinazione di cui parla Paolo, allora, non è un destino determinista ma il riconoscere che il mistero d’amore di Dio, il sacro, è ciò che innerva anche il nostro stesso corpo, che conferisce a tutto il nostro essere un orientamento, una direzione, un avvenire. Si tratta di riconoscere, con Paolo, che tutta la nostra vita, è già innervata dal sacro e che incontriamo, nelle realtà profane, nel quotidiano, nelle attività sociali, nella politica, un germe di sacralità presente anche nelle altre persone. Non si tratta di separare il sacro dal profano, di rendere il sacro una categoria istituzionale, ma di espanderlo, di potenziarlo, di rivelarlo per quello che è. Anzi, rendere il sacro una categoria istituzionale, ci farebbe cadere nello stesso errore di Amasìa nei confronti di Amos. Il sacerdote del tempio di Betel che giunge alla paradossalità di cacciare il profeta dal tempio, perché esso non è più tempo di Dio ma tempio del re, il luogo ufficiale in cui il re tutela la religione o, meglio ancora, in cui la religione tutela il potere del re. E quando la religione diviene una tutela dell’istituzione e, al tempo stesso, un potere tutela e chiude la religione in uno spazio, ecco che essa diviene solo una provincia dell’esistente, come la chiama Buber stesso. La religione rischia di diventare solo e soltanto una zona in cui espletare certe funzioni e certi bisogni, uno spazio di sicurezza tutelato da un potere che vigila. Se pensiamo alle nostre istituzioni e alla tutela della religiosità, comprendiamo bene anche il perché Amos venga cacciato dal santuario del re. Infatti, il profeta era colui che denunciava anche la corruzione del potere, cosa che non poteva essere tutelata in un santuario ufficiale, in una zona rassicurante e in cui le sole parole che risuonano sono quelle per cui va tutto bene. In questo modo, non solo si depotenzia il sacro ma non permettiamo neanche alle altre persone di entrare in contatto con quella sacralità che ciascuno di noi si porta dentro. Una sacralità che non è solo dentro di me ma soprattutto nella relazione con l’altro, con il diverso, con colui che non riesco a comprendere fino in fondo in quanto abitato dal mistero di Dio. Ed è per questo motivo che il Signore manda i suoi discepoli ad annunciarlo per le strade, sviluppando gesti di incontro con le altre persone. Il tempo in cui le persone si rivolgevano a noi, agli ambienti ecclesiali e clericali per avere un minimo di conforto è terminato. Non possiamo più pensare che le persone debbano venire da noi, ma siamo noi, in quanto Chiesa in cammino, ad andare incontro alle persone. Non per bontà o perbenismo ma perché il Signore stesso ci ha inviato, perché crediamo che la sacralità si spande e diffonde nella vita, che il sacro è il mistero d’amore di Cristo, la sua chiamata dentro di noi, quella voce della coscienza che ci spinge ad incontrare l’altra persona e ad innervare la vita sociale e politica di sacralità. Per questo siamo inviati, per questo ancora crediamo che il sacro è una postura etica nei confronti della vita intera, di quella vita che tiene dentro la traccia del cammino e del passaggio di Gesù stesso.