Ripartire dallo sguardo
Lo sguardo sulla città è uno sguardo che procede in ogni prospettiva. Soprattutto per guardare la città, occorre una moltitudine e pluralità di prospettive. Questo è stato il perno della riflessione di Enrica Tulli durante i dialoghi di filosofia che si sono svolti a Bisceglie, nel mese di maggio. Per prima cosa ci occorre ricordare che la filosofia prende le mosse proprio dallo sguardo e dalla capacità di guardare la realtà, per chiedersi, in fin dei conti, cosa sia la realtà e perché, in qualche modo, ci sia questa realtà e non un’altra. Ora, se l’incipit della riflessione è lo sguardo, è interessante notare come per abitare, occorra, prima di tutto, uno sguardo sulla realtà. Ora, lo sguardo è ciò che permette alla filosofia stessa di nascere e di sviluppare la propria riflessione. In filosofia, infatti, non esiste nulla che non sia, prima e in qualche modo, guardato. Dove lo sguardo è, sostanzialmente, un abitare la realtà stessa, trasformandola attraverso la riflessione. E riprendiamo proprio l’idea dell’abitare da Heidegger, il quale afferma che lo sguardo filosofico è un andare oltre il pensiero calcolante, ovvero oltre la mera tecnica e il mero utilizzo dello spazio. Perché abitare uno spazio non significa solo utilizzarlo, ma aprirlo a differenti prospettive, a differenti interpretazioni, a differenti approcci, fra cui uno di questi è quello calcolante. Tuttavia, ridurre lo sguardo al mero calcolo e ridurre lo spazio a gestione tecnica, significherebbe appiattire lo spazio su una singola interpretazione, non solo facendo scomparire l’idea di luogo abitato, ma logorando gli stessi luoghi. Dal consumo di suolo all’abbandono dei rifiuti, tutto rientra sotto la sola dimensione dello spazio calcolato e calcolante, per cui uno spazio è tale nella misura in cui è utilizzabile o no. Ma questa dimensione dello sguardo riflessivo e, dunque, plurale, ci apre ad una nuova dimensione dell’abitare che è quella della progettualità. Lo spazio non più solo utilizzabile, chiuso dentro la sua funzionalità, ma pro-gettato, spinto e indirizzato verso una forma antropologica, ovvero che non riguardi solo l’essere umano, ma la concezione che l’essere umano ha di sé stesso, all’interno del suo ambiente. Guardare uno spazio, quindi, significa anche guardare se stessi all’interno dello spazio, considerarsi all’interno dello spazio e modificare lo spazio nella misura in cui guardiamo noi stessi. Uno sguardo che non è mai univoco o singolo o monodimensionale, ma sempre e comunque plurale, aperto, interagente e connesso con gli altri, con le altre specie animali e vegetali, con tutto ciò che ha una forma di trascendenza. Insomma, uno sguardo che spinge ad un doppio, che guarda a sé stessi e, al tempo stesso, a come siamo all’interno di ciò che viviamo. Allora, la riflessione che emerge da questo dialogo è proprio sul come poter tornare e come salvaguardare il nostro abitare all’interno delle città, partendo dallo sguardo. In altre parole, se volessimo comprendere come abitiamo una città potremmo partire da una semplice domanda: che sguardo abbiamo su noi stessi?
Viviamo in una fase storica in cui lo sguardo su noi stessi è quello degli ultimi 70 anni: lavorare, produrre, consumare. Questo è lo sguardo tecnico della produttività rispetto a cui la filosofia è la bella addormentata! Lo sguardo antropologico è ancora lontano!