Pensare secondo Dio
Is 50,5-9a; Sal 114; Gc 2,14-18; Mc 8,27-33
Pensare secondo Dio o pensare secondo gli esseri umani, sono le parole che Gesù consegna a Pietro ma anche a noi in questa Liturgia della Parola. Ma cosa significa pensare secondo gli esseri umani o pensare secondo Dio? Si tratta di due punti di vista differente che, alle volte, sembrano essere anche opposti. E per spiegare meglio questa differenza vogliamo riprendere uno dei personaggi più famosi emersi dalla penna di J. R. R. Tolkien, celebre autore de Il Signore degli anelli. Ed è proprio il Signore degli anelli che vogliamo prendere in considerazione, dove esso non è il protagonista della saga ma il Nemico stesso, Sauron. Infatti, il Signore degli anelli è un titolo che viene dato a Sauron, l’Oscuro Signore, il quale forgia in segreto un anello magico per dominare tutti gli anelli del potere che ha sparso per la Terra di Mezzo e che ha consegnato a tutti i re e i principi degli elfi, dei nani e degli umani. Il potere che ognuno cerca e ottiene attraverso l’anello viene sottomesso a sua volta dall’anello di Sauron, in cui egli riversa tutta la sua malvagità e anche un pezzo della sua stessa essenza. Un anello per domarli tutti. Ma per giungere a questo, Sauron ha bisogno di ingannare prima gli elfi, poi i nani e infine gli umani, presentandosi a loro non come l’Oscuro Signore ma come Annatar, il Signore dei doni, che Tolkien descrive ne Il Sirmallirion. Si tratta di un personaggio che incarna in maniera audace e sottile, come sa solo Tolkien, il male che attanaglia i cuori. Un male che si traveste da angelo di luce, di meraviglia e di stupore e che inganna le persone che prestano ascolto. Si tratta di un male che ci si mette accanto e che sembra sempre altro rispetto a se stesso. Esattamente qui è il pensare secondo gli esseri umani, questo far assumere a Gesù una forma altra rispetto a chi è veramente. È quel dire che egli è Giovanni Battista, Elia o qualcun altro dei profeti, come se fosse cambiata solo la sua forma e qualcuno degli antichi profeti, tutti morti, fosse tornato in vita. Ma quando Gesù chiede a Pietro chi egli sia, allora, ecco che Pietro afferma: “Tu sei il Cristo”. Pietro dice di Gesù chi egli è veramente, senza mentite spoglie, senza altri paragoni, senza forse neanche una consapevolezza di ciò che stesse dicendo. Infatti, di questo ce ne accorgiamo immediatamente dopo quando Gesù dice che egli non è venuto a prendere il potere, ma per soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Una realtà spiazzante per Pietro come anche per noi che crediamo che Gesù è il Cristo e che pensiamo che egli sia venuto a prendere il potere, che egli sia il nostro Signore degli anelli, capace di darci potere e di farci sottomettere al suo potere. Gesù non si traveste, come Sauron, ma si spoglia e continua a spogliarsi fino a scendere nelle profondità più atroci dell’essere umano. È questo ciò che Pietro non riesce a comprendere, non vuole comprendere e per cui chiama il disparte Gesù dicendogli che questo non succederà mai. Ma la rivelazione di Cristo è in questo paradosso per cui guardare in faccia la sofferenza, in cui presentare anche il dorso ai flagellatori, le guance a coloro che strappano la barba, non sottrarre il volto dinanzi agli insulti e agli sputi, come afferma il profeta Isaia a proposito del Servo Sofferente. La violenza sull’innocente è il luogo in cui Dio si rivela perché è un luogo che viene abitato da Cristo stesso, in cui siamo chiamati a riconoscere il Cristo, un Dio che si spoglia fino alle ossa per noi, fin dentro la sua carne, fino alla morte e alla morte di croce. Questa è l’opera del Signore, attraverso cui si rivela la fede stessa, come ci ricorda Giacomo. Una fede che si nutre di opere che non sono la praxis ma ancora di più, sono ergon, sono assunzione di forma, di carne, di responsabilità anche dinanzi al male e alla sofferenza. La fede senza le opere è morta non perché dobbiamo fare tante cose, ma perché l’opera è la croce, è il segno che non va via, il segno attraverso cui riconosciamo che Gesù è il Cristo, che assume la nostra prospettiva perché noi potessimo assumere il punto di vista di Dio sulla realtà, affinché potessimo essere consapevoli che il Signore non si traveste per sfuggire al riconoscimento, ma si fa riconoscere nel profondo dell’inferno, lì dove l’essere umano rischia di perdersi nell’abisso. Lì dove mi stringevano funi di morte, ero preso nei lacci degli inferi, ero preso da tristezza e angoscia. Allora ho invocato il nome del Signore: «Ti prego, liberami, Signore». Non quindi in una mutazione di forma per sfuggire e ingannare come il Signore degli anelli, ma lì dove ogni essere umano grida nell’abisso, lì il Cristo si fa presente, si rivela, si denuda, si fa riconoscere.