ParaSITE: un utero umano
ParaSITE di Michael Rakowitz non è una sola opera d’arte quanto un vero e proprio progetto artistico. L’autore, nato nel 1973 e in mostra al Castello di Rivoli, intreccia arte e urbanistica, emarginazione sociale e possibilità di riscatto, abitare sostenibile e riuso ecologico. Si tratta, infatti, di buste di plastica avvolte con nastri e legate ai sistemi di ventilazione dei negozi, soprattutto dei ristoranti. Sistemi di ventilazione da cui fuoriesce aria calda e che gonfia la struttura della busta di plastica facendola diventare una casa per senza fissa dimora, costretti a dormire al freddo notturno della città. Qualche volta ascoltiamo anche dai telegiornali di persone senza fissa dimora che vengono ritrovati morti nelle nostre strade, semplicemente perché hanno dormito per strada. Michael Rakowitz ha costruito per loro delle case dove poter dormire, sfruttando il calore disperso nell’aria che permette anche agli homeless di non morire a causa del freddo, durante la notte. In ogni città in cui si è diretto Rakowitz ha pensato di mettersi all’opera per costruire queste installazioni artistiche che, non sono fatte semplicemente per essere guardate, quanto per essere usufruite. Interessante, in questo senso, diviene anche l’idea stessa di arte che ci propone il nostro autore. Infatti, non è un’arte che serve per essere guardata o per essere ascoltata ma per essere abitata. Un’arte che, paradossalmente, è tale solo nella misura in cui esprime la sua funzione, altrimenti sarebbe solo un insieme di buste di plastica e fili. Inoltre, si tratta di un’arte che non può essere traslata se non vicino ad una fonte di aria calda, insomma un’arte che ha bisogno di uno strumento per essere tale e di uno strumento quotidiano come può essere un condotto di areazione. Ma uno strumento così quotidiano che non sempre è presente o, se presente, sicuramente non molto esteticamente gradevole. Invece, Rakowitz ci ha mostrato come anche uno strumento banale possa essere il luogo dove far nascere un’opera d’arte e, inoltre, che un’opera d’arte non è sempre fatta per essere messa in un luogo chiuso come può essere un museo o aperto come semplice decoro urbano. Un’opera d’arte può avere anche una funzione sociale, può anche essere abitabile. E nella sua abitabilità diviene anche occasione di riscatto, possibilità di sopravvivenza, luogo in cui la pietà dell’utero materno si rende ancora visibile. Una casa che assomiglia quasi ad una placenta e che ci ricorda che tutti proveniamo da lì, da un nido caldo e accogliente che ci fa tornare ad essere chi siamo: esseri umani.