Ostinati e contrari
Ez 2,2-5; Sal 122; 2 Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
Una delle tante storie che impreziosisce e costella la vita di san Nicola Pellegrino, il folle per Cristo, è quella che lo vede prigioniero all’interno di un monastero. Una volta giunto presso il monastero, inizia a pregare, come suo solito, con il Kyrie Eleison. I monaci lo prendono e lo sbattono in cella, su una torre, in quanto non riuscivano più a sopportarlo. Chiudono bene la cella e nella stessa sera in cui era stato rinchiuso, ecco che si ode un boato che lo libera. Meravigliati, i monaci pensano di rinchiuderlo nuovamente con delle catene ma egli, pregando e ripetendo la preghiera del cuore, vede le catene spezzarsi dinanzi a sé e si ripresenta nuovamente nel refettorio al cospetto dei monaci. Ancora più stupiti dell’accaduto, ecco che credono che il giovane Nicola sia dapprima indemoniato, poi si accorgono che non può essere indemoniato perché le preghiere di esorcismo avrebbe già funzionato su di lui. Nonostante tutto, infine, lo cacciano dal monastero. Una piccola storia che ci rivela due elementi importanti attraverso cui possiamo leggere la Parola di Dio di oggi. Da una parte il profeta come segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo e dall’altra il rifiuto ad ascoltare. Due elementi che non sono in contraddizione fra di loro ed è questo che ci fa più male, oggi. Infatti, se il profeta fosse semplicemente colui che viene ascoltato, colui che porta la Parola ad un popolo che ascolta, tutto sarebbe risolto. Invece, ciò che stride nella Parola di Dio di oggi è proprio questa contraddizione fra il profeta e il popolo che non vuole ascoltare, il popolo che può anche rifiutare l’ascolto. Perché la Parola non è data solo dalle nostre labbra, non è una forza che riguarda la retorica, ma indica la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, una presenza che ci mette dinanzi ad una scelta: ascoltare o non ascoltare. In questa chiave di lettura ci viene introdotto il profeta Ezechiele, il quale è colui che si fa portavoce della Parola di Dio, in mezzo ad un popolo ribelle. Non in mezzo ad un popolo ben disposto ad ascoltare, non in mezzo ad un popolo che sa già riconoscere la Parola di Dio, non in mezzo ad un popolo che ascolta volentieri la Parola. Ma in mezzo ad un popolo che continua a rifiutare la Parola, ed è questa la sfida di Ezechiele, la sfida a cui viene chiamato e in cui viene chiamato. Non è solo un profeta, ma un profeta chiamato in questo contesto qui, nel contesto dell’esilio e della dispersione del popolo. Un contesto che non è facile, in cui anche Gesù si trova a fare i conti. Anche Gesù è il profeta che non è accetto in patria, il profeta dinanzi a cui ci si chiude gli orecchi, che non si vuole ascoltare. Il profeta a cui non prestare ascolto, perché già sappiamo tutto, perché ci vuole tempo, perché bisogna fermarsi ad ascoltare. L’arte dell’ascolto implica il tempo, l’arte dell’ascolto significa anche saper attendere, saper fermarsi dinanzi all’altro e alla Parola. E, allora, invece di guardare il bicchiere mezzo vuoto, per cui sembra che la predicazione di Gesù, come quella di Ezechiele, siano andate a vuoto, ci vogliamo soffermare sull’insistenza di Ezechiele e, ancora di più, di Gesù. Nonostante tutto Ezechiele è segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, mentre Gesù è presenza di Dio, è presenza della sapienza divina che viene dalla sua stessa storia, in mezzo ai suoi. Mentre Ezechiele è investito del carisma profetico, Gesù si trova in una situazione in cui tutti lo conoscono fin dall’infanzia, e si stupiscono delle parole di sapienza che escono da lui, della visita di Dio in mezzo al suo popolo. Oltre lo scandalo che può provocare la sua presenza, oltre le difficoltà che si possono incontrare, Gesù non smette di imporre le mani ad alcuni malati e di guarirli, ovvero non cessa di manifestare la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Anche quando questo significa andare in direzione ostinata e contraria, anche quando questo significa pagare di persona con l’emarginazione e il rifiuto. Nonostante tutto, continuare ad essere presenza di Dio, nutrirsi della sua Parola, senza montare in superbia, come ricorda Paolo. Perché la superbia deriva non dalla Parola, ma dalla considerazione che abbiano di noi stessi e dalle altre persone. La superbia nasce quando facciamo parte della maggioranza e crediamo che la verità della Parola derivi dal fatto di essere in maggioranza. Invece, la verità che proclamiamo viene da quella debolezza che non ci fa montare in superbia, da quella debolezza che ci mette dinanzi al Signore e ci fa arrendere a lui, da quella debolezza che è anche libertà interiore, liberazione da ogni angoscia e paura, liberazione da ogni pretesa di potere, per essere segno della presenza di Dio. Una liberazione che, come ci ricorda Nicola Pellegrino, diviene presenza di Dio, in direzione ostinata e contraria.