Mediterraneo: il mare che siamo
Parlare di Mediterraneo significa sempre, in qualche maniera, narrare il Mediterraneo. Non si tratta solo di affermare che il Mediterraneo sia un mare fra due terre, come non possiamo ridurre il Mediterraneo ad una semplice distesa d’acqua. Come ci ha fatto notare Predrag Matvejević e con lui molti altri autori, da Erri de Luca a François Laplantine fino ad arrivare anche a papa Francesco, parlare di Mediterraneo significa fondamentalmente narrare di incontri e di pluralismo. Nessun altro mare racchiude in sé questa simbologia come quella di un incontro che alle volte si trasforma anche in scontro e quella del pluralismo. La simbolica del Mediterraneo è quella di essere, appunto, medi-terraneo, fra le terre. Ed è proprio questo essere in mezzo, questo essere fra due terre, che spinge all’incontro e ad un incontro plurale. Per comprendere l’importanza e la simbolica del Mediterraneo, in questo termini, potremmo prendere, come raffronto, gli oceani. La grande distanza fra il continente europeo e il continente americano, più che favorire il pluralismo, ha ingenerato processi di uniformità e di conformismo. Ovviamente, questo non riguarda tutte le culture che si trovano da una e dall’altra sponda dei mari, quanto una percezione dell’alterità, più o meno vicina a noi. In altre parole, se negli oceani abbiamo distanze più ampie, questo non spinge all’incontro e alla pluralità come ha fatto il Mediterraneo nel corso dei secoli. Ed anche le città costruite sulle sponde del Mediterraneo riflettono questa cultura dell’incontro e della pluralità. Non solo una pluralità fatta di incontri o scontri, ma anche di commistioni, di intrecci, di con-fusione e di meticciato. La possibilità di spazi distanti ma colmabili attraverso la navigazione, da una parte ha promosso la cultura locale, dall’altra ha fatto sì che le culture potessero incontrarsi. E quando parliamo di culture, intendiamo sia i saperi, sia le idee, sia il commercio, sia la religione. Per questo, vivere all’interno del Mediterraneo e riconoscersi all’interno di un grande mare, non significa solo promuovere la propria cultura ma favorire l’intreccio delle culture, perché è la nostra stessa cultura, il nostro stesso modo di vivere che è formato da complesse stratigrafie accumulate nel corso dei secoli. La manifestazione peculiare di questa stratigrafia culturale, tipicamente mediterranea, è la lingua. Tutte le culture locali hanno un proprio dialetto, ovvero una lingua che rispecchia non solo una cultura ma le differenti culture che sono nate, germogliate o solamente transitate in un territorio. Le inflessioni, gli accenti, la terminologia, ci permette di respirare quest’area mediterranea: dai greci agli arabi, passando per i latini, i bizantini e popolazioni autoctone. Tutto questo è Mediterraneo e la simbologia legata ad esso: una cultura, un modo di vedere le cose, un modo di pensare, un modo di agire che racchiude incontri plurali, differenze ed anche conflitti. Mediterraneo non è un mare, ma uno stile di vita, un sapere che si tramanda, un orizzonte in cui si mischiano popoli e fantasie, in cui le sorprese non cessano, in cui il fascino del paesaggio e la durezza e il rischio di terre comunicano in linguaggi locali ed evocativi. Mediterraneo è il contrario del conformismo, dell’appiattimento, della mediocrità e degli standard. Se il nostro corpo, in media, è composto dal 60% d’acqua, ci auguriamo che, almeno un po’, quell’acqua sia Mediterraneo.
Aggiungerei che purtroppo gli scambi culturali che hanno animato e continuano ad animare questo nostro mare, sono anche esito di guerre e di morte. Per sfuggire alla retorica dobbiamo tenere in considerazione che, talvolta, drammaticamente, lo scontro “vale” quanto l’incontro. Intere civiltà sono state fondate sul sangue. Basterebbe vedere come le mappe ottomane raccontano le nostre coste, cogliere quanto la loro bellezza raffinatissima sia l’esito di un rapporto ammirato e ostile allo stesso tempo o ricostruire le rotte contemporanee di quelle navi che traghettano armi partendo dalle nostre coste, alimentando guerre che ipocritamente consideriamo estranee. Dunque, ragionare sul ruolo che questo mare ha giocato nell’evoluzione delle civiltà, delle lingue e dei popoli che lo abitano, significa fare i conti anche con il dolore. Non certo per tesserne l’elogio, ma per non rimuovere il suo peso, in modo che le voci dei molti morti che questo mare continua a seppellire, possano rammentarci le nostre responsabilità e impegnarci nel fare in modo che il prossimo racconto le declini finalmente al passato remoto.