L’ospite e il sacro
Tornare a parlare dell’ospitalità, durante il periodo della stagione turistica, ci permette di intravedere le differenze insite fra la semplice recezione turistica, l’accoglienza e ciò che propriamente, possiamo interpretare come ospitalità. Infatti, l’ospite non è solo colui che entra in territorio per visitarlo ma colui che porta un po’ del suo stesso territorio, della sua stessa esperienza, del suo stesso vissuto nel territorio in cui entra. Se, dunque, da una parte c’è la pretesa di difendere i propri territori dalla contaminazione con altre culture, con altri popoli, con altre etnie, dall’altra c’è l’evidenza che ogni cultura, ogni territorio e ogni popolazione è cresciuta e ha accresciuto il proprio bagaglio di competenze grazie alla commistione con altre culture, alla contaminazione con altri popoli. L’ospite, in questo senso, è simbolo dell’estraneo che porta nella casa la novità. Per cui l’ospitalità, soprattutto nei tempi antichi e nelle popolazioni mediterranee, era considerata un elemento sacro, in quanto carico di innovazione e di ignoto, di tremendum et fascinans. L’sopite è considerato, dunque, sacro per questa dialettica fra ciò che è ancora ignoto da una parte e ciò che è affascinante perché fonte di novità. Praticare l’ospitalità, dunque, è un rito sacro per cui nella misura in cui l’ospite entra nella nostra casa, tanto più la nostra casa si allarga, entra oltre i confini della dimora, oltre lo spazio conosciuto. Ma se questa è la caratteristica principale dell’ospitalità, un ulteriore caratteristica è che l’ospite ci fa sentire più a casa, in quanto allarga la dimensione dell’abitare al mondo, allarga l’orizzonte dell’abitare a ciò che prima non era conosciuto e non era conoscibile. Grazie all’ospitalità e non al turismo, la cultura locale progredisce aprendosi ad un orizzonte globale, favorendo lo scambio di culture e non solo di consumo. Paradossalmente, allora, non siamo noi che facciamo sentire l’ospite a casa, ma è l’ospite che fa sentire a casa noi, che ci fa sentire più a casa in quanto abitanti del mondo, in quanto ci apre dinanzi ad una abitabilità differente del mondo, ad un orizzonte nuovo e inesplorato. Al contrario, chi pensa di poter identificare semplicemente l’idea di casa con lo spazio addomesticato, coloro che pensano che “ognuno debba stare a casa propria”, che “siamo padroni a casa nostra”, ad un’analisi un po’ più attenta sono persone banali, che vivono la quotidianità nello spazio ristretto dell’addomesticato e, di conseguenza, dell’addomesticamento come supremazia della propria cultura rispetto alle altre. In questi termini, ciò che chiamiamo sacro si riduce al controllo di ciò che è già conosciuto, all’addomesticamento del divino e alla sacralità del confine. Dove l’ospite apre ad una sacralità migrante, nomade, inquieta e affascinante, l’addomesticamento frena, controlla, detiene il potere, fino all’implosione. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli (Eb 13,2).
Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo, hanno accolto degli angeli…
Molto bello. Condivido pienamente. Io che ho fatto accoglienza a visitatori di tutte le età e di varia formazione presso il Museo Diocesano mi sono ritrovata nello . scritto del messaggio: quegli incontri erano uno scambio di esperienze e di modi di vedere le cose, quelle visite erano un arricchimento vicendevole. Ora mi mancano un po’,e mi manca anche la scuola dove l’insegnante fa ogni giorno accoglienza ai bambini o ai ragazzi ospiti della classe.
Nell’ospitalità vuol dire abbandonare l’egoismo, per uno scambio vicendevole, l’accoglienza è l’espressione e l’esperienza più ricca per un cristiano, ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.