Lo spazio sacro: l’essere è nulla
Nei mesi scorsi mi è capitato spesso, per i più disparati motivi, di tornare a riflettere sulla dimensione del sacro. In modo particolare, è tornato spesso l’interrogativo sul ruolo e sulla vocazione del sacro all’interno delle città. Se il sacro ha ancora senso, se è solo un retaggio del passato, se è semplicemente una costruzione storica o un dispositivo di potere. E di qui sono nate varie riflessioni su cosa farne del sacro, sul come affrontare i processi di secolarizzazione, se ci sia bisogno di eliminare definitivamente, con una sorta di campagna sociale la questione del sacro o, semplicemente, ridurlo ad un pezzo da museo, ad un retaggio culturale e sociale delle nostre civiltà, ma che non ha più nulla da offrire alla moderna, ipermoderna e surmoderna civiltà contemporanea, globalizzata o, per meglio dire, occidentalizzata. Credo, in prima istanza, che bisogna porre delle differenze fra ciò che è sacro, ciò che è cultuale, ciò che è religioso e ciò che è rituale. Come una sorta di stratificazione, nelle nostre città, ci ritroviamo ad affrontare e a vivere esperienze rituali che variano nelle forme, nelle composizioni, nei contesti storici e sociali. Tuttavia, il rito non è identificabile con il sacro, ma il rito è una espressione storica della relazione sociale e collettiva degli esseri umani con il sacro. E questo ci sembra evidente nei legami che una città ha con le proprie tradizioni e i propri riti. I riti, poi, non sono neanche specificatamente legati ad un senso religioso identico per ciascuno. Le ritualità collettive, infatti, non è detto che siano sempre religiose e non è detto neanche che le ritualità religiose siano sempre delle manifestazioni di fede. Il senso religioso, infatti, dipende dal credere di ciascuno, credere che permette di partecipare in un determinato modo e con determinate posture ai riti religiosi. Ora, il senso religioso di ogni persona, poi, sia che sia ricevuto dall’educazione famigliare sia che nasca da esperienze personali, non è possibile identificarlo con la sfera del culto. Seguendo le intuizioni di Pavel Florenskij, potremmo dire che il culto ha a che fare non solo con l’esperienza di fede, non solo con il proprio cammino religioso, ma con la cultura. Dove cultura sta ad indicare il come viviamo il nostro tempo e la nostra epoca in relazione al culto del sacro. Al di là di un sistema religioso, dunque, c’è una relazione che è, al tempo stesso, personale e collettiva con il sacro che si manifesta nella dialettica fra culto e cultura. Ogni relazione con il sacro (culto) genera cultura, intesa come pratiche, pensieri, attività, operazioni, quotidianità che viviamo con gli altri, nella costruzione della città. Allora, che cosa è il sacro in una città? Se guardiamo a tutte le espressioni cultuali e culturali, nelle differenti epoche storiche, che si sono relazionate al sacro, potremmo dire che esso è uno spazio all’interno della città. Il sacro è uno spazio urbano in cui è contenuto il nulla, la cui esistenza stessa è nulla. Lo spazio sacro è lo spazio dell’essere nulla, in cui non c’è solo un vuoto urbano, ma un rimando ad una dimensione altra, ad una relazione con la divinità. Lo spazio sacro è quello spazio che, nell’essere, è il nulla. Un nulla che non permette all’essere di implodere su se stesso nell’accrescimento continuo, nella saturazione e nella pienezza. Allora, in quanto spazio del nulla, il sacro è lo spazio della pluralità, lo spazio che diviene luogo di culto e che genera cultura come continua e costante interpretazione del vivere nella contemporaneità, in comune. Ecco, allora, a come può esprimersi il sacro all’interno delle città: non sotto forma di riti, non solo come percezione religiosa individuale, ma come nulla che apre ad una polisemia di linguaggi culturali che rimandano ad una relazione cultuale con il divino. Un luogo sacro in cui poter decomprimere l’essere e l’esistenza, per lasciar posto all’inedito.
“Tutto si puo’ spiegare con la fisica”
Questa e’ l’affermazione dello scomparso cosmologo Stephen Hawking, scopritore del funzionamento dei buchi neri.
Questa affermazione, che costituisce il vertice di un percorso culturale lungo secoli, se la intendiamo in senso stretto, cioe’ ” non c’e’ nulla oltre il fisico”, esprime il fondamento teorico del peccato originale biblico
Mangiare dall’ albero della sapienza, secondo alcuni filosofi esistenzialisti, significa ritenere che il reale, in ogni suo aspetto compresi quelli non materiali, come il pensiero’ la cosienza e l’identita’, sia solo solo un meccanismo necessario di natura chimico-fisico-molecolare, che procede secondo leggi, non si capisce poi perche’, comprensibili dalla sola Ragione e dominabili solo alla sua luce.
Il “peccato” di questo umano pensare non e’ di natura morale ma ontologica.
L’uomo che crede nel suo solo sapere scientifico-razionale, precipita se stesso nella condizione di essere sola materia di Natura in divenire meccanico, come una montagna, un deserto o un topo.
L’inferno a cui l’uomo si autocondanna e’ quello di essere privo di volonta’ e liberta’ e aggiungerei di coscienza. Se fossimo solo Natura Il nostro io, il nostro sentirci individui, il nostro stesso pensare, il nostro amare il nostro scegliere, il nostro agire sarebbero solo gli illusori effetti di chissa’ quale trasformazione chimica che sta avvenendo nel nostro cervello.
Non ci sarebbe nessun fine, ne’ nessun perche’, ne’ nessun dopo nel nostro esistere.
Saremmo una forma temporanea di un fenomeno di autocombustione.
Ho potuto sperimentare che i razionalisti, atei ecc. che difendono questa determinazione puro-naturalistica dell’umano vivere si sentono piu’ “liberi” di noi credenti.
E’ una macroscopica contraddizione.
Nella loro tesi escatologica la liberta’ e’ morta e sepolta (vedi Spinoza) . Se tutto si compie nel fenomenico allora tutto, persino il cogito, e’ dominato dalle leggi di necessita’ di natura. Lo stesso concepire una tesi sarebbe una illusione chimica.
A questi amici, che amo e rispetto perche’, da credente, li ritengo liberi e apportatori benefici di dialettiche che tengono in costante tensione il mio credere, faccio notare che in quel luogo che tu, Matteo, definsci “sacro” e qualifichi come spazio del nulla, in quel luogo in cui io, nella mia piccola esistenza, ho potuto sperimentare il dialogo con Dio, in quel luogo che loro ritengono folle frequentare, e’ la’, dicevo, che si tiene la mia Liberta’. E solo l’ontologico esistere di Dio (se vi da’ fastidio il termine Dio sostituitelo coi termini metafisico, invisibile, innominabile, ultraterreno ecc.) che garantisce la mia liberta’ intesa come capacita’ di volere e scegliere.
A sostenere questa tesi non mi appoggio sui padri della Chiesa o su teologi o mistici. No. Cito uno dei piu meticolosi esaminatori ontologici della Ragione : Immanuel Kant.
Kant, che pure nega la possibilita della Ragione di indagare il noumeno e che nega pure alla Ragione teoretica la capacita’ di generare un’etica e una Legge morale, quando si trova nella necessita’ di definire come la Ragione agisce “praticamente” nel fenomenico, senza mai declinare dal metodo logico-analitico, attraverso un percorso ipotetico, giunge inevitabilmente alla conclusione di postulare l’incondizionato.
E’ solo sull’incondizionato che si puo’ fondare razionalmente la facolta’ umana della volonta’, della liberta’ e di conseguenza della responsabilita’ del proprio agire e pensare.