L’eredità di Alberto Magnaghi
Il 21 settembre 2023 ci ha lasciato l’architetto Alberto Magnaghi. Per coloro che sono addentrati nell’urbanistica e negli studi urbani, in generale, il suo nome è celebre in quanto legato a concetti come territorio e, soprattutto, bioregione urbana. Idee che hanno influenzato non solo la pratica territorialista, ma hanno offerto un contributo alla riflessione teorica su cosa significhi, oggi, abitare non solo nella città, ma in una città inserita in un territorio. L’elaborazione di Magnaghi, come possiamo leggere dalla sua biografia, proviene dai circoli di Potere operaio, dai movimenti del ’68 italiano, dal Partito Comunista e, ancora, dai teorici della sinistra operaia, primo fra tutti Marx. Tuttavia, in quegli anni, ancora poco interesse era riservato all’attenzione al territorio, in quanto ancora legati al movimento operaio, alla massificazione della classe operaia e della lotta di classe. Magnaghi, invece, inizia a rispondere alle problematiche operaie non solo con lo studio dei movimenti operai, ma riponendo attenzione alla dimensione territoriale. La grande industria prima e il potere tecnologico globalizzato, infatti, devastano e dematerializzano i territori, le culture locali, i valori dell’abitare insiti e costruiti all’interno di una storia e di una cultura. Per questo motivo, l’attenzione di Magnaghi si rivolge alla scala territoriale, alla relazione dei cittadini non solo con la loro città, ma anche con tutto il territorio circostante, con quelle pratiche di scambio e di relazione fra l’ambiente in cui una collettività vive e la storia di quella comunità locale. Una riflessione sui territori, dunque, che vede come compagni di strada Murray Bookchin e Kirpatrick Sale, insieme ai teorici dell’ecologismo sociale e del decentralismo. Il principio territoriale, la sua principale opera della maturità, ci permette di prendere consapevolezza di cosa significhi vivere in un territorio, impostare il problema della città non solo dal punto di vista della pianificazione urbana, ma come un sistema che interessa la scala locale, un eco-sistema che la produzione in serie, la riduzione della città ad una grande fabbrica con le sue funzioni e i suoi meccanismi, rischia di alienare, degradare e impoverire non solo il tessuto urbano ma soprattutto l’essere umano. Una città che funzioni semplicemente per andare da un posto all’altro, in un tragitto fra casa e lavoro, in tempi di percorrenza ed efficienza delle prestazioni offerte rischia semplicemente di essere una città che alinea l’essere umano, che elimina la scala locale e la comunità in cui siamo inseriti, per cui vivere in una città è lo stesso che vivere in un’altra. Nessuna differenza, omogeneizzazione e centralizzazione delle decisioni e del potere, rendono la città una fabbrica alienante, in cui nessuno sa cosa avviene, nessuno si interessa dell’altro, nessuno riesce a pensare al di fuori di tempi da consumare e di tragitti da percorrere. Una città frammentata e disgregata che diviene altro rispetto alla comunità e alla cultura. Un rischio che si fa sempre più rilevante ed urgente, dinanzi a cui la riflessione di Magnaghi ci aiuta a riconoscere lo spessore dell’abitare su scala locale e costruire pratiche di comunità per la bioregione urbana.
La città funzionale e’ la derivata urbanistica della risposta di una societa’:industrializzata alla domanda delle domande: perché sono al mondo? quale è il fine del mio esistere?
Se vivo per godere dei beni materiali che beneficano il mio corpo, la città funzionale è la migliore risposta possibile.
Se invece penso che il mio esistere abbia altre motivazioni allora il modello urbanistica DEVE cambiare.
A monte dei fenomeni urbani c’e’ la coscienza ontologica