La vivente comunità urbana: la città adattiva
La crisi della città non è recente, ma ha radici profonde. Se volessimo provare a tracciare un probabile inizio della crisi delle città, intesa sempre come punto di rottura, è nella progressiva differenza fra costruire e abitare. La crisi della città inizia nel momento in cui il costruire si distanzia dall’abitare, nel momento in cui chi costruisce guarda più a determinati standard tecnici e non alla qualità della vita o ai paradigmi antropologici che insistono in un territorio. E da questa crisi, forse non attraversata in maniera critica, tutto scende a cascata: crisi nel modello di città, crisi ecologica e ambientale, crisi psicologiche, crisi sociali e comunitarie. La differenziazione fra costruire e abitare produce delle crisi che non hanno ancora visto un apporto critico alla risoluzione dei problemi, ovvero non sono state ancora pensate come crisi in quanto tali. Pensare alla differenza fra costruire e abitare come crisi, significa non solo mettere in evidenza lo spaccato politico delle decisioni prese nella città, ma anche mettere in atto un passaggio ulteriore, ovvero quello del pensare insieme, cosa significhi città. Molto spesso sentiamo parlare di una architettura partecipata, per cui le città vengono costruire insieme agli abitanti stessi. Tuttavia, prima di pensare ad una partecipazione nella sfera della technè, della tecnica del costruire, ci occorre ripensare ad una metafisica della città stessa, a cosa intendiamo oggi per città. E dinanzi ai cambiamenti epocali contemporanei, dal cambiamento climatico a quello sociale, non possiamo non pensare alla città se non come processo di adattamento. La città è una comunità adattiva, nella misura in cui è capace di far fronte ad un mondo che sta cambiando. Se nel nostro tempo nasciamo con l’idea di voler cambiare il mondo, oggi ci accorgiamo che siamo noi a cambiare per adattarci al mondo, pratica che tutti gli esseri viventi mettono in atto. Non si tratta di una metafisica della sopravvivenza, come se stessimo per collassare tutti in uno scenario apocalittico. Si tratta, invece, di un nuovo modo di pensare noi stessi all’interno del mondo, come organismi viventi. E l’organismo è tale nella misura in cui si organizza, nella misura in cui organizza se stesso per far fronte ai cambiamenti e alle sollecitazioni esterne. In questo consiste l’adattamento: in una nuova forma organizzativa. Non semplicemente in una forma organizzativa nuova, quanto una nuova forma organizzativa. Si tratta, in altre parole, non di inventare nuovi modi di stare al mondo, ma di riconoscere che siamo parte del mondo, che siamo parte di una grande sistema vivente e che le nostre stesse città sono degli organismi viventi. Questa è la sfida, se vogliamo, della rigenerazione urbana, per cui gli spazi non sono elementi asettici, ma luoghi in cui comunità viventi nascono, crescono e muoiono, per lasciare spazio a nuove forme viventi. In questo senso, dunque, per rigenerare gli spazi occorre adattarli alle nuove esigenze delle comunità, riconoscere dove si sviluppano e crescono le comunità e, soprattutto, che cosa vuol dire comunità oggi. Di qui, dunque, ripartire per riprogettare la città in termini di organizzazione adattiva, modulabile e resiliente. Una progettazione che, in senso circolare, coinvolga anche l’essere umano non solo come soggetto progettante, ma anche come soggetto pro-gettato nella città, in una vivente comunità urbana.
Interessante la riflessione sul passaggio di prospettiva tra voler cambiare le cose e il cambiare noi riguardo a situazioni che cambiano non per nostra volontà. Passaggio da individualismo a altruismo.
L’altro passaggio che mi ha fatto riflettere è il cambio di prospettiva tra ricerca di perfezione costruttiva a ricerca di soddisfare esigenze abitative di esseri viventi. Ancora una volta evidenzia la differenza tra obbiettivo e scopo. Obbiettivo limitato alla perfezione delle tecniche costruttive e scopo, finalizzato a soddisfare le esigenze di chi dovrà viverci.