La terra e la carne: i luoghi urbani
Qualche giorno fa ho ascoltato una canzone di Vinicio Capossela, La faccia della terra, tratta dall’album Da solo. È la storia che proviene dai Racconti dell’Ohio di Sherwood Anderson, una specie di Spoon River dei viventi. La storia di sempre, di uomini e di donne solitari e, al tempo stesso, che hanno una sorta di destino comune, legato alla terra. Storie di uomini e donne che si ritrovano, prima o poi, in ginocchio o inginocchiati sulla nera terra per cercare Dio, per cercare qualcosa, per cercarsi. Capossela assume le storie e le immagini di queste persone a paradigma metafisico di ogni uomo e di ogni donna che si trova sulla faccia della terra, appunto. Ed è nel procedere delle storie che si avvicendano sulla scena che la terra inizia ad avere un legame sempre più profondo con la carne. Elementi simbolici, la terra e la carne, che si accostano e si avvicinano, ponendosi come elementi fondanti l’esperienza, elementi originali e originanti. Da una parte elementi originali in quanto rimandano ad una origine che trascende ogni struttura, ogni costruzione, ogni elemento dato, ogni fatto, ogni morale. Si tratta di una origine che cerca di denudare se stessa, di rivelarsi per quella che è, senza la paura di essere giudicata. In questa dinamica possiamo leggere tutte le buone intenzioni dei protagonisti che, prima o poi, cadono o si disintegrano, per costringere quasi i personaggi a tornare alla terra. Esperienze che incidono nella carne e che riportano alla terra, riportano all’origine. Non solo al punto di partenza, ma alla stessa sostanza di cui siamo fatti, all’essenziale che siamo, intriso di umiltà e miseria. Da qui, allora, la terra diviene originale originante la carne stessa. Infatti, tornare alla terra significa tornare alla propria carne, tanto che molto dei culti antichi e della mitologia classica legavano la carne alla terra, nell’essere scavata, nei solchi, nella fertilità, in tutto ciò che genera. La terra e la carne hanno questo elemento in comune: la generatività originale, il cordone ombelicale che ci riporta a chi siamo veramente, a chi ci ha preceduto e, al tempo stesso, a chi verrà dopo di noi. Lo stesso essere creato dell’umano si radica nella terra, nel fango, nell’argilla impastata con il soffio vitale. Questo lo possiamo leggere sia nei tanti racconti della creazione dell’umano sia nel Libro della Genesi, in cui alcuni esegeti non leggono in ebraico umano quanto terrestre. Dio crea un terrestre, proprio perché lo prende dalla terra e alla terra tornerà. Seguendo i racconti della creazione del Terrestre, allora, carne e terra sono la stessa cosa, anzi, carne e terra vivente, terra che si muove e che ha in sé un soffio vitale. Se guardiamo alla città, allora, dal punto di vista simbolico, comprendiamo come questo legame fra terra e carne viene, per certi versi, infranta, per altri vietata, per altri ancora ricercata. Palazzi anonimi, ricerca di aree verdi, progetti di rigenerazione urbana, scavare per costruire le fondamenta di un fabbricato, discariche per i materiali di risulta, tutto coinvolge la terra e nella misura in cui usiamo violenza alla terra, ecco che usiamo violenza alla nostra stessa carne, non solo in maniera individuale ma in maniera collettiva. Una carne sociale, una carne che è anche quella degli altri, una violenza che si riverbera in mille e mille modi. Se tornassimo, allora, alla dimensione della carne, alla nudità della carne, alla relazione di cura con la nostra carne, potremmo riprendere anche la dimensione della terra, la cura nei confronti della terra. Tornare alla simbolica della carne e della terra, per ripensare anche i luoghi urbani, l’organizzazione del territorio, i vuoti urbani lasciati non semplicemente all’incuria ma ai luoghi della terra, al respiro della terra come respiro della carne.