La sacra famiglia
Gen 2,18-24; Sal 127; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16
La sacra famiglia è la prima opera, pubblicata nel 1844, scritta insieme da Karl Marx e Friedrich Engels. È il primo passo per una critica della critica critica, ovvero per contrappore all’idealismo di Bruno Bauer che sfocia in uno spiritualismo disincarnato, la dialettica materialista. L’intento di Marx ed Engels, dunque, è quello di criticare una filosofia troppo astratta, che sfocia in una negazione della materia, in una negazione dell’essere umano in nome della sua stessa idea. A questi uomini costretti ad essere umani, come ricordano Marx ed Engels, loro ricordano la materialità della vita, l’esigenza di una concretezza che ha a che vedere con la dimensione dell’alterità, della società, del conflitto. Per questo, La sacra famiglia di Marx ed Engels, è una critica ad una realtà disincarnata, avulsa da qualsiasi aspetto storico e contingente. E il rischio della idealizzazione della sacra famiglia, come anche delle nostre famiglie, può percorrere anche la Scrittura e la Parola di Dio di oggi. Il racconto della Genesi ci mette in guardia, paradossalmente, proprio da questa tentazione di idealizzazione raccontandoci che la nostra realtà, la realizzazione, il diventare realtà è un processo che ha a che vedere con l’altro, con la profonda e misteriosa radicalità dell’altro. Si tratta di una radicalità così profonda che a che vedere con il mistero rivelativo di Dio, ovvero Dio si rivela nella dialettica radicale che costituisce il nostro essere umani. Una dialettica che non assimila l’altro ma in cui c’è tensione, c’è conflitto, c’è condivisione, in una parola c’è corrispondenza, ovvero una persona che sa rispondere e la cui risposta può anche essere diversa e in dissonanza con la mia. In questo consiste la dialettica come corrispondenza del reale e nel reale. Una dialettica che si contrappone a qualsiasi nostra idealizzazione familiare e sociale, oltre ogni nostra presunzione che l’altro risponda semplicemente a quello che io affermo, magari ammantando tutto di ubbidienza cieca e militare. E questa corrispondenza ci riporta anche alla dimensione del ripudio con cui i farisei vogliono mettere alla prova Gesù. Non solo come questione morale sul divorzio, ma come tentativo di fare a meno della realtà. Ripudiare l’altro, seppur in termini giuridici, significa ripudiare il fare i conti con la realtà, il comprendere che la realtà è altra rispetto a quella che penso o che ritengo. Infatti, il ripudio fa emergere i rapporti di potere che tentato di governare o dominare sulla realtà, per cui solo l’uomo può ripudiare una donna e mai il contrario. Ecco, allora, perché il ripudio ha a che vedere con l’adulterio e con l’esposizione all’adulterio. Non solo dal punto di vista sessuale o sessuofobico, ma perché iniziamo ad adulterare la realtà, a fare a meno di quella parte di noi che siamo e che non vorremmo vedere, mantenendo semplicemente dei rapporti di potere con le altre persone. E Gesù stesso afferma che il ripudio è dato da Mosè per la durezza del cuore e non perché la realtà è così e che alle volte le cose vanno male. La possibilità di ripudiare è data dalla durezza del cuore, dal non voler fare i conti con la radicale alterità di un’altra persona o dal non riuscire a fare i conti con questa alterità, peggio ancora a non essere educati a tutto questo. Per cui la dialettica con l’alterità non significa ripudiare l’altro ma renderci conto della nostra strutturale necessità dell’alterità per fare i conti con la realtà che siamo, con chi siamo. Perché la realtà è alterità e nell’alterità ritroviamo la rivelazione di Dio, del Dio di Gesù Cristo. Una rivelazione di Dio fatta anche di dialettica fra sofferenza e santificazione, dove l’una non può essere vista senza l’altra come ci ricorda l’autore della Lettera agli Ebrei. Una sofferenza che significa non infliggersi pene ma fare i conti con la realtà, come Cristo stesso ha fatto esperienza della morte a vantaggio di tutti. Perché la dialettica significa, al contrario dell’idealismo e delle nostre idealizzazioni della realtà, fare i conti con la morte, con la nostra mortalità, con la sofferenza della nostra mortalità attraverso cui giungere alla santificazione. Una realizzazione, dunque, che non dipende dal successo personale ma dalla difficoltà e grazia di fare i conti con questa realtà, senza cedere alla lamentela che ci fa subire la realtà. Perché scendendo radicalmente nella dialettica del reale, possiamo incontrare noi stessi, l’altro e il mistero stesso di Dio.
Ciao don, davvero hai fatto l’omelia così come riportata? Te lo chiedo perché un pò si fatica a seguirne la complessità nel leggerla ed immagino cosa significhi seguirne l’esposizione orale. Ciò nulla toglie alla profondità della riflessione. Mi farebbe piacere se riscontrassi….
P.S. che rimane dell’esperienza presso il seminario con i tuoi giovani confratelli presbiteri?
Buona domenica
Penso che omelie così profonde non se ne sentono dai tempi di Origene…al di là del riferimento bibliografico, apprezzabile, ho la sensazione che ormai la società non sia più disposta, nelle omelie, nei comizi, come anche a scuola, a intestine il suo tempo nello sforzo della riflessione, del pensiero, dell’approfondimento…