In ultima classe
Is 53,10-11; Sal 32; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45
In una delle sue lettere, datata 24 aprile 1890, Charles de Foucauld scrisse: “Nostro Signore, visse poveramente, lavorando, digiunando, sconosciuto e disprezzato, come l’ultimo degli operai, passò giorni e notti in solitudine nel deserto. Io amo Nostro Signore Gesù Cristo, anche se con un cuore che vorrebbe amarlo di più e meglio, comunque lo amo e non posso sopportare di condurre una vita diversa dalla sua, una vita senza scosse, onorata, mentre la sua fu la vita più dura e disprezzata che sia mai esistita. Non posso attraversare la vita in prima classe, mentre colui che amo la attraversò in ultima classe”. Quest è il ritmo che Gesù ha voluto dare alla sua vita, disprezzata e in ultima classe, non per un masochismo individuale, ma perché quella sola vita che aveva l’ha donata a tutti noi. E donando la sua vita, ci ha aperto il passaggio alla vita eterna. E amare non significa solo aver parte alla vita divina, gustare già oggi l’eternità, ma anche desiderare di essere somiglianti all’Amato, desiderare di essere come l’Amato stesso. E se Gesù ha attraversato la vita in ultima classe, la verifica dell’amare Gesù sembra essere proprio quella dell’ultima classe, di vivere non miseramente, ma in una povertà che significa lavorare con le proprie mani, faticare e non pensare di pontificare sulle vite delle altre persone rimanendo semplicemente sulla superficie, sorvolando fra parole vuote e ripetitive e giudizi senza compassione. Scegliere di amare Gesù significa scegliere una vita autentica, una vita libera in quanto capace di reggersi sulle proprie gambe, di non cedere alla mediocrità e al parassitismo, come anche smettere di cercare privilegi e carriere. Una vita in ultima classe, dunque, non significa una vita che disprezza ciò che è, ma una vita che ritrova nella povertà un senso, nella sofferenza una luce come ricorda il profeta Isaia. Oggi, la povertà viene ancora troppo spesso assimilata alla miseria in termini di alienazione, di perdita di senso, di ripetitività anonima. La povertà con cui ha vissuto Gesù, invece, è una povertà che va all’essenziale delle questioni, che è capace di addossarsi le iniquità di questo mondo. Dove addossarsi non significa che le cose capitano anche senza merito e senza colpa, ma scegliere di farsi carico anche delle sofferenze del mondo, anche delle persone che sono oppresse, sfruttate, discriminate, che bruciano nella guerra. Altrimenti rischiamo di far diventare la vita di Gesù solo una favoletta per ingannare le persone, per acquietarci la coscienza, per rimanere impassibili dinanzi ad un mondo che va a fuoco. La vita di Gesù, invece, è una vita che sa prendere parte alle nostre debolezze. Quel sommo sacerdote che fa che siamo deboli e per questo non ci giudica, ma si fa carico anche di quelle debolezze, anche di quelle nostre fragilità. Non diviene complice dei nostri peccati, ma riconosce come non sia possibile amare senza farsi carico delle altre persone, senza guardare alle situazioni concrete e reali, senza mettersi in ascolto, senza dare voce e senza prendersi cura degli altri. Ecco ciò che Giacomo e Giovanni non riescono ancora a comprendere e per questo chiedono di essere uno alla destra e uno alla sinistra di Gesù. Chiedono di fare carriera, chiedono di potersi assicurare un posto in cielo, chiedono un privilegio che crea discriminazione e divisione, tanto che gli altri si indignano con Giacomo e Giovanni. Una indignazione che sorge dall’invidia e che vede nelle parole di Gesù un termine a tutto questo: fra voi non è così. Fra di noi, c’è un’altra logica che sgorga dalla croce di Gesù, dal fatto che egli, il Giusto si è offerto per tutti noi e che ci vede impegnati in una dimensione quotidiana che interroga, inquieta, scomoda la coscienza stessa. E, può sembrare terribilmente vero e paradossale, ma l’amore di Gesù ha come criterio di verifica esattamente il metterci a servizio gli uni gli altri. Non il numero delle preghiere, non la quantità delle novene e delle formule da ripetere, ma semplicemente quanto ci facciamo carico delle sofferenze di questo mondo, quanto ci mettiamo a servizio delle nostre città, quanto siamo disponibili a mettere un freno all’odio per offrire a questo mondo una goccia di splendore, un frammento di bellezza, un gesto d’amore. Perché è da questo bisogno d’amore, da questo metterci a servizio dell’amore, da questo ricordarci che amare significa viaggiare in ultima classe, a somiglianza di Gesù, che saremo chiamati discepoli. E discepoli che sanno che dell’amore del Signore è piena la terra e possiamo incontrarlo lì dove c’è bellezza, coraggio, cura inquietudine e passione per ogni persona che soffre, che è oppressa, che viene ancora oggi discriminata. Dell’amore del Signore è piena la terra, e possiamo scorgerlo lì dove sentiamo ancora amore per questa grande e immensa umanità.