Il villaggio e la favelas: nuove metafisiche urbane
Come ben sappiamo, l’urbanistica nasce in risposta ad un bisogno sociale dell’Ottocento, ovvero quello della grande concentrazione di persone all’interno delle città, spinte dalle campagne verso la grande industria. Il problema urbano, dunque, è un problema tecnico di gestione del territorio, affidato oggi in prevalenza agli architetti. Infatti, l’urbanistica è una delle discipline che ogni studente di architettura incontra nel proprio percorso di studi. Tuttavia, l’architettura non è immediatamente legata all’urbanistica come l’urbanistica non può ancora essere lasciata solo in mano a tecnici e architetti. Prova di tutto questo è l’intuizione e lo studio che hanno effettuato Anthony Reid e John May nel loro libro Architettura senza architetti. È possibile immaginare una architettura senza architetti? D’altro canto, è possibile immaginare un’urbanistica senza urbanisti? Le risposte non sono lasciate alla teoria e alle speculazioni quanto alla gestione del territorio e alla stessa storia dell’urbanistica. Infatti, l’urbanistica senza urbanisti è ciò che nella storia ha dato forma al villaggio, alla città medievale, al comune. Non ad uno spontaneismo del costruire, dove ognuno fa che quel vuole ma una armonia architettonica data dalla comunità stessa o da chi gestisce la comunità, che risponde a certe prospettive metafisiche. La città medievale, pur non vedendo la professione di architetto o di ingegnere, ha una forma precisa, scolpita, con riferimento architettonici e strutturali ben precisi, anche nel loro apparente disordine e caos. La città medievale, ad esempio, ha come precisi punti di riferimento la cattedrale e il castello, mentre la città rinascimentale si sviluppa attorno ad un cardine che è il Palazzo del Comune. Insomma, la forma della città non viene affidata a nessun tecnico in particolare, al massimo la riflessione sulla città ideale scorre ancora fra le pagine dei filosofi. Attualmente, tuttavia, la riflessione di una urbanistica senza urbanisti ci porta a prendere in considerazione soprattutto quegli agglomerati umani in cui non c’è nessuna gestione ma che sorgono in maniera spontanea. L’immagine più ricorrente di queste costruzioni sono le favelas, le quali non vengono progettate da nessun architetto o urbanista e, al tempo stesso, non risentono di nessun centro che ne faciliti l’orientamento. Le favelas non hanno centro o, meglio, non hanno un proprio centro, il quale è costituito dalla city, dal centro di potere e di direzione delle megalopoli. Le favelas sono la periferia senza centro, in cui la spontaneità abitativa, la capacità di arrangiarsi, le gerarchie abitative vengono meno. Non essendoci un centro che appartiene alla favelas, ovviamente non c’è gerarchia costruttiva, ma un nuovo senso di aggregazione che fa leva sui bisogni. Ecco, allora, che l’urbanistica, intesa come capacità gestionale della città, è sullo spartiacque fra ciò che è il villaggio con un suo centro e ciò che è la favelas in quanto periferia. Dove le due forme di insediamento spingono ad una nuova comprensione dell’urbanistica stessa, non solo fatta di norme e decreti ma di un nuovo modo di ripensare la città, di una nuova metafisica che non più delegata ma partecipata.