Il Fa(nta)sma Metafisico
Per qualche adulto, forse, la canzone Per sentirmi vivo, di Fasma non ha niente da dire. Per molti ragazzi e ragazze, invece, potremmo sottolineare una tonalità emotiva tutta particolare, oppure riportare alla memoria delle relazioni difficili e fallite. Tuttavia, ciò che colpisce maggiormente della canzone, non sono solo le parole, quanto la scenografia in cui è ambientato il videoclip. Una band collocata su una torre in rovina, ai margini della città, in aperta campagna. Nello sfondo una città, mentre all’orizzonte un sole al crepuscolo, che lascia spazio alla notte. Immediatamente, lo scenario preparato per il videoclip della canzone, ci rimanda alle piazze metafisiche di Giorgio de Chirico, alle sue torri solitarie e alla sua malinconia inquietante che ispira pensieri e parole. Proprio su questo paragone vogliamo proporre una riflessione metafisica sulla città e sulla realtà giovanile. Dove per metafisica non intendiamo qualcosa di astratto o disincarnato dalla realtà, una visione incantata e facilmente ottimista della realtà. Per metafisica intendiamo un bisogno di riconnettere la riflessione fra diverse realtà, fra processi e progetti, scoprendo dietro le parole e i linguaggi, un pensiero in grado di interpretare la realtà. Come affermava Florenskij, la metafisica è concreta, quotidiana in quanto attinge dalla vita stessa offrendone una ermeneutica. Ebbene, ritornando al paesaggio di Fasma, come anche alle parole del suo testo, emergono delle linee malinconiche fatte di relazioni fallite. Non relazioni violentemente fallite, ma confuse, fragili, difficilmente in equilibrio, ma che tuttavia scavano dentro, nel loro silenzio. Non si tratta di clamori o di notorietà, cosa che anche lo stesso autore di Per sentirmi vivo, contrappone a queste relazioni: “sai che se muoio lento dentro, fuori sorrido”. Descriviamo spesso i ragazzi e le ragazze nella e dalla relazione con i social, tuttavia, c’è un mondo carsico, un mondo che fugge alla visibilità e alla propaganda, come anche al controllo della visibilità stessa. Un mondo intimo, fatto di pensieri e di oscurità, di crepuscoli e malinconia, difficile da esprimere. Una gamma di emozioni che si aggrovigliano all’esistenza e che possono trovare un punto espressivo, una catarsi, in una canzone. Allora, a cosa serve una metafisica? Serve a riflettere, senza dare risposte, ma piuttosto ponendo domande, sulla confusione e sul caos espresso o inespresso. E la città e i paesaggi, possono essere uno specchio ermeneutico della realtà giovanile, come anche delle tonalità emotive che ci portiamo dentro. Seguendo, allora, la riflessione metafisica che emerge dal video di Fasma e dalle Piazze di De Chirico, in relazione alla città e alla realtà giovanile, potremmo affermare che la fragilità delle relazioni è data proprio dalla mancanza della metafisica stessa, a tutti i livelli e in tutti i campi. Scambiando la metafisica con qualcosa di chiuso e definito una volta per tutte, ecco che assistiamo ad un continuo crepuscolo degli idoli, direbbe Nietzsche. Crepuscolo che si riverbera nelle città come nella realtà giovanile. Ciò che rimane è un sole che scompare, una decadenza che penetra nell’interiorità e di cui non possiamo farne a meno. Decadenza che attraversa i giovani come le città, fino al sopraggiungere della notte. Eppure, mentre cerchiamo soluzioni a questo problema, ciò che suscita il crepuscolo è la domanda piuttosto che la risposta. Ed è qui che la metafisica si distingue da tutte le altre scienze umane. Non risposte a problemi, ma domande dinanzi all’inquietudine, perché l’inquietudine ispira la domanda, che, al tempo stesso, manca e ne percepiamo la presenza. Proprio così è la metafisica giovanile e urbana. Una metafisica che, contemporaneamente, manca e fa percepire la sua presenza: come un fantasma. Allora cosa fare “per sentirci vivi”? Porre domande all’inquietudine, saperle decifrare, tradurre, ricomporre, per dare forma al caos, ordine alla confusione e disordine alle problematiche. A questo serve la metafisica. Perché possa tornare a visitarci dall’alto un sole che sorge e dirigere i nostri passi sulla via della pace (Lc 1,79).
“Se immagino, vedo. Che altro faccio se viaggio ? Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire.” È Fernando Pessoa nel suo Libro dell’Inquietudine che ci ricorda quanto conti l’immaginazione per sentirsi vivi, ma perché questa emerga dalla solitudine interiore c’è bisogno di educarla: imparare a portarla fuori; creare le condizioni perché possa emergere; lasciare lo spazio necessario perché possa esprimere anche le sue naturali incongruenze. Processo sempre più complicato in questo nostro tempo dove la metà fisica della giovinezza tende a soccombere sotto il peso della metà mentale, difficile da intercettare se inciampa in quel fantasma, spinta ad arroccarsi piuttosto che ad animare una piazza sempre più deserta per manifestarsi, per manifestare. D’altronde i manganelli non l’aiutano e nemmeno l’offerta populista che la tratta come merce.