Il Castello di Zak, pura anarchia
Il Castello di Zak non è un luogo delle favole né una storia con qualche principe azzurro come finale. Il Castello di Zak non è neanche un’opera pittorica vera e propria ma un luogo pittorico o, meglio, artistico. Qualcuno potrebbe affermare che si tratta di uno spazio espositivo, allora, come se fosse un museo, ma non sarebbe corretto. Infatti, il Castello di Zak non è né un museo né un castello come penseremmo noi, ma è una vecchia fabbrica abbandonata nei pressi della periferia di Milano e, più precisamente, a Cormano. Una vecchia fabbrica in disuso, un luogo abbandonato che il tunisino Jemai Zakaria custodisce come luogo di espressione di giovani street artists. Non è un museo in quanto le opere non sono quadri o sculture ma i graffiti che sempre più invadono le nostre città. Il Castello di Zak si presenta, dunque, come una sorta di laboratorio per giovani writers che cercano di esprimere la loro arte sui muri, prima di affrontare la giungla urbana. Una fabbrica, dunque, che è diventata, a poco a poco, un grande spazio dove le varie esperienze artistiche su muro si confrontano, si allenano, si alternano nella piena periferia della città. Un luogo che ci spinge verso una riflessione molteplice su questo particolare tipo di arte, qual è la street art, ancora in bilico fra consenso popolare e limite della legalità. Un’arte che in una fabbrica abbandonata come il Castello trova il suo centro ma che, nella città, non è ancora accolta, accettata, compresa. Guardando il Castello, infatti, molte sono le domande che ci possono attraversare. È possibile chiamare ogni disegno un’opera d’arte? È lecito che un writers, in quanto individuo, possa esprimere la propria arte su un bene pubblico o privato, comunque non suo? E cosa ci può essere di davvero artistico in un murales? Ma, ancora: può uno spazio abbandonato e tetro diventare luogo di espressione di giovani che scelgono di esprimersi liberamente? I murales possono essere considerate opere visionarie, simbolo di giovani che guardano oltre il piattume di ciò che definiamo reale? L’arte non è anche capacità di prendersi in giro o i murales non esprimono anche il gioco creativo all’interno di un contesto urbano che sta diventando sempre più anonimo e spersonalizzante? Non è vero che Il Castello di Zak è diventato tale proprio grazie alla street art e che, se non fosse stato un luogo condiviso dove regnasse sovrana la creatività, oggi sarebbe solo una fabbrica abbandonata? Zak stesso in un articolo pubblicato su D’Ars Magazine, dice: “Vivo in un luogo “senza nome” perché qui possono inserirsi i nomi di tutti, questa specie di equilibrio nello squilibrio, desiderio di tutti di raggiungerlo, ma la distanza insopportabile, sopravvissuto alle pagine della vita come identità labile per testimoniare che l’equilibrio nello squilibrio è di chiunque, basterebbe sapere attraversar lo, ma forse non l’ho attraversato del tutto nemmeno io”. Il Castello di Zak, allora, è un luogo senza nome se non quello del possibile. Il Castello rimane continuamente aperto, continuamente il luogo dove ad esperienze artistiche si aggiungono domande ed interrogativi. Il luogo, insomma, della creatività più anarchica perché cosa è la creatività se non pura anarchia, dove l’inizio non ha mai inizio e fine? Come una domanda, come un punto interrogativo. Insistente e persistente.