Ha perso la città?
La storia della città è costellata da un insieme di sogni infranti. Dalle utopie di stampo platonico alle nuove organizzazioni degli industriali più illuminati dell’Ottocento, passando per le città di là da venire, la maggior parte delle visioni d’insieme della città sono collassate, lasciando prevalere interessi privati o di piccoli gruppi. L’ultimo sogno infranto ci viene raccontato da Nicolò Fabi nella sua Ha perso la città. Tanti frammenti di abitudini urbane, piccoli e grandi problemi, congegni funzionali per rendere le città più agili sembra che ci facciano perdere il vero senso della dimensione urbana: la comunità. La grande perdita, stando alla canzone di Fabi, è proprio la comunità, il senso di appartenenza ad una città, ad un tessuto urbano, ad una storia locale, a generazioni e stratificazioni di persone ed edifici, di eventi e di processi che si sono succeduti e avvicendati all’interno del territorio della nostra città. Aperta al mondo, la città sembra aver perso la capacità di essere il luogo comune, di essere il terreno dove ciascuno possa sentirsi, in qualche modo, a casa. Perché la questione abitativa non riguarda solo la dimensione di suolo, le politiche della casa, la promulgazione di leggi speciali per l’esproprio di terreni edificabili, ma indica è anche una domanda di come abitare, del perché abitare, del senso stesso dell’abitare. E questo scollamento fra la domanda di abitazioni e la domanda di abitabilità all’interno delle nostre città è dettato, prevalentemente, da politiche che guardano alla funzionalità e alla decogestione degli spazi urbani. In altre parole, è più rapido pensare a come far funzionare meglio la città che chiedersi se ha ancora senso questo vivere in comune dettato solo dai bisogni. È come chiedersi dove fare più parcheggi per le automobili che chiedersi il perché devo prendere l’auto per fare solo qualche chilometro all’interno del centro abitato. È più redditizio costruire edifici nuovi e moderni che aiutare le persone a far parte della comunità urbana. Perché un edificio nuovo, una strada nuova, un parcheggio nuovo rispettano semplicemente delle norme e degli standard dettati da chi la città non la abita. Mentre per far sentire un cittadino abitante della propria città occorre tempo, educazione, riflessione, coraggio. Tutte cose che la competitività non riesce a tollerare, perché per essere competitivi occorre realizzare la maggior parte delle cose richieste nel minor tempo possibile. Allora, ecco che la realtà urbana come realtà comunitaria diviene un sogno, una sconfitta, lasciando vincere ciò che è rapido, la nuova moda del fast. Ed ecco, allora, che diviene più facile percorrere dieci chilometri per giungere a lavoro, che aprire la porta di casa e fare venti metri per salutare il proprio vicino. Questa è l’agonia della città, in cui la sfida è domandarci quando la realtà è divenuta un sogno?