Fedeli alle parole
Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28
Nel film Palombella Rossa di Nanni Moretti c’è una scena iconica. Il protagonista affronta una intervista da parte di una giornalista che inizia ad utilizzare espressioni e parole vuote, senza capirne il senso e senza spiegarne il senso. L’intervista termina con il protagonista che prende a schiaffi la giornalista e inizia a gridare: “Ma come parla!? Le parole sono importanti!”. Con uno stacco a rallentatore che fa percepire una sorta di eco, come se questa frase dovesse rimanere impressa nello spettatore. È esattamente la stessa dinamica che ci troviamo dinanzi quando ascoltiamo la Parola di Dio, l’autorità con cui Gesù fa queste cose. La gente ha timore non perché Gesù utilizza parole di minaccia, ma perché riesce a comandare anche ai demoni, ovvero a coloro che rimangono fuori dalla parola, con cui non si può parlare e che non ascoltano la parola, di andarsene. Il miracolo, dunque, non è dato dal prodigio dell’esorcismo, ma dall’insegnamento di Gesù dato con autorità. Un insegnamento non autoritario ma autoriale in quanto capace di unire la propria vita alle parole che dice. L’autorità dell’insegnamento, come anche noi possiamo percepirlo nella vita di tutti i giorni, non ci viene dato dalle istituzioni che garantiscono una parola, nemmeno dalle cattedre o dai pulpiti in cui riecheggiano delle parole, ma dalla vita di chi ci sta parlando. Al più le istituzioni, le cattedre, i pulpiti servono a far emergere la discrasia fra le parole che diciamo e la vita che portiamo avanti. Al massimo riescono a comunicare la nostra scarsa affidabilità e la nostra mancanza di autorità. E noi scorgiamo l’autorità delle parole di Gesù non dal tono o dall’imposizione, come neanche dal tipo di parole che dice, ma dalla novità di un insegnamento che parla alla vita e che si domanda della vita stessa, che si fa prossimo. Un insegnamento di cui Mosè aveva già parlato quando ha evidenziato l’autorità del profeta. Un uomo che succederà a lui e che viene preso dal popolo stesso, per dare voce alla Parola di Dio. Sappiamo che per l’Antico Testamento è impossibile vedere Dio o ascoltare Dio e rimanere vivi, per questo il profeta non è colui che parla al posto di Dio, ma colui che da voce alla Parola di Dio, quella Parola che intercorre, che genera comunione e che ci allena alla comunione stessa. Ecco perché il profeta è preso dal popolo e diviene colui che offre voce alla Parola, assumendosene anche la responsabilità e scegliendo di non parlare alla pancia, di non parlare per altri dèi che ci possiamo costruire. Il profeta è colui che parla nella verità e che offre le sue parole per cogliere la Parola che ha ascoltato. Non è un populista che offre la sua voce agli idoli del popolo, che accontenta il popolo, che pensa di dirigere il popolo, ma che ha anche parole appassionate nella ricerca della verità e che redarguiscono il popolo nella Parola di Dio. È, insomma, colui che ci prende anche a schiaffi affinché possiamo prendere coscienza di noi stessi, delle parole che utilizziamo. Perché le parole dicono anche la nostra vita, il nostro modo di occuparci delle cose di Dio, nelle questioni del mondo, sociali, ambientali e giovanili in particolare. Significa mettere in questione, in domanda il mondo stesso, attraverso la Parola e vivere nella Parola stessa. Ecco perché Paolo afferma a ciascuno di noi, nella condizione esistenziale in cui si trova che le parole dicono la nostra fedeltà al Signore. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni. Ed ecco perché l’ascolto della Parola diviene capace di cogliere i segnali del cuore, di cogliere le profondità del nostro cuore, di scegliere e di discernere chi siamo, per non indurire il cuore, come abbiamo pregato nel Salmo. Per rimanere liberi nell’autorità dinanzi anche alle nostre parole, fedeli alla Parola.