Edifici in disuso: porosi e osmosi
Uno dei più emergenti e interessanti campi di sfida delle città riguarda non solo il costruire e il costruito, le zone di ampliamento e di espansione, quanto il riutilizzo di beni dismessi, di edifici abbandonati, di case sfitte. Si tratta di processi che, in molte parti del mondo sono già in atto con forme e processi estremamente differenti e complessi e che riguardano edifici sorti per una determinata funzione e poi lasciati o abbandonati una volta terminato il loro utilizzo o la loro funzione. Esempi di questo sono capannoni industriali, chiese, ospedali, manicomi, banchine portuali, bacini di contenimento e tanti altri. Un insieme di edifici che nascono per una determinata funzione e che, in seguito, una volta cessata la loro funzione vengono rimessi in un circuito nuovo che riguarda le forme della città stessa. Non più una funzione presa in maniera isolata ma una funzione all’interno di una forma urbana, la quale cambia e si trasforma continuamente. Così, nonostante i cambiamenti e le prese di posizione, ecco che rimane sempre e comunque un nodo da sciogliere: cosa ne facciamo degli edifici dismessi? Per quanto ci riguarda, prendendo spunto da alcuni elementi urbani in particolare, ci possiamo soffermare su una dialettica fra porosi ed osmosi degli edifici. Gli elementi urbani che vorremmo maggiormente prendere in considerazione sono quelli più pregni di senso, come le chiese dismesse. Riflettendo su questa tipologia di edifici, possiamo notare come ci sia un approccio differente a seconda delle filosofie di conservazione e di restauro. Tuttavia, il legame che essi creano con la città non riguarda solo la conservazione dell’edificio in sé quanto lo spazio che l’edificio occupa nella sua percezione urbana. Si tratta, insomma, di edifici che hanno senso se letti in un contesto storico e architettonico ma che possono vivere di ulteriori interpretazioni quando il contesto storico e culturale cambia. Se ritorniamo sull’esempio delle chiese dismesse, esse conservano un significato sacro che permane oltre la funzionalità dell’edificio e che si interseca, in maniera preponderante, con la sua forma architettonica. C’è una simbolica delle chiese che unisce le forme plastiche al tema del sacro. Il problema sorge quando il sacro e le conseguenti forme acquistano un significato statico e rigido o quando possono essere reinterpretate alla luce dei contesti contemporanei. In altre parole, se guardiamo ad un edificio ecclesiale, fuori dalle sue funzioni di culto e di sacralità, esso non può sussistere e di conseguenza rimarrebbe chiuso in se stesso, portando ad un lento e irrimediabile degrado delle strutture architettoniche, nonostante si possano destinare contributi economici per il suo restauro. Ma se la simbolica del sacro rimane chiuso all’interno della forma e di singolo riferimento storico-sociale, allora avremo un semplice spazio vuoto e non più utilizzato, una porosi dell’edificio e della simbolica ad esso connessa. Se, invece, la funzione dell’edificio può essere reinterpretata alla luce della sua simbolica, allora, anche la cultura contemporanea può essere influenzata dalle forme simboliche dell’edificio stesso. Si verrebbe, insomma, a creare un osmosi fra l’edificio e la cultura contemporanea che permetterebbe di aggiungere nuove ermeneutiche sia alle forme architettoniche degli edifici in disuso sia la percezione urbana e il dialogo contemporaneo potrebbero trarne vantaggio. Un doppio passaggio, insomma, attraverso una membrana selettivamente permeabile che è la simbolica. Dove il selettivo non è dato dalle mie precomprensioni ma da un dialogo fecondo fra i cittadini, le forme urbane, le architetture delle città.
Quanto sono belle le facciate decadenti degli edifici. Tele astratte disegnate dal tempo.