Dinanzi alla porta

Dinanzi alla porta

1 Febbraio 2025 0 di Makovec

Ml 3,1-4; Sal 23; Eb 2,14-18; Lc 2,22-40

Aprite la porta, dunque, e vedremo i verzieri, berremo la loro acqua fredda che la luna ha traversato. Il lungo cammino arde ostile agli stranieri. Erriamo senza sapere e non troviamo rifugio. Vogliamo vedere i fiori. Qui la sete ci sovrasta. Sofferenti, in attesa, eccoci davanti alla porta. Se occorre l’abbatteremo con i nostri colpi. Incalziamo e spingiamo, ma la barriera è troppo forte. Bisogna attendere, sfiniti, guardare invano. Guardiamo la porta; è chiusa, intransitabile. Vi fissiamo lo sguardo; nel tormento spingiamo; noi la vediamo sempre, gravati dal peso del tempo. La porta è davanti a noi; a cosa serve desiderare? Meglio sarebbe andare senza più speranza. Non entreremo mai. Siamo stanchi di vederla. La porta aprendosi liberò tanto silenzio. Che nessun fiore apparve, né i verzieri; solo lo spazio immenso nel vuoto e nella luce apparve d’improvviso da parte a parte, colmò il cuore, lavò gli occhi quasi cechi sotto la polvere. Nella sua poesia, La porta, Simone Weil ci ha raccontato del desiderio, della brama, della tensione verso un altrove che vorremmo si aprisse. Trovare dianzi la porta, per Weil, significa ricevere una mèta, un ristoro dall’errare, del camminare senza sosta e senza mèta. È la porta, che in questo anno giubilare, ci viene chiesto di attraverso non solo come una cerimonia da compiere, ma come un rito di passaggio, di rinascita. Il nostro viaggiare senza mèta, senza direzione, spesso affannati e schiacciati tende verso una porta che è simbolo di tutte le nostre mete, desideri, attese e speranze. Ad un certo punto la porta si apre e, meravigliosamente, non appare nulla delle nostre mete, nulla di quello che pensavamo, nessun giardino rinfrescante, nessuna acqua che può dissetare le nostre seti, ma solo e soltanto vuoto e luce. Attraversare la porta significa non più solo effettuare un rito di passaggio, ma attendere ciò che giunge dalla porta stessa. Ciò che ci aiuta a purificare il cuore, ciò che lava e deterge lo sguardo. Spazio immenso di vuoto e di luce, in cui il Signore rivela la sua presenza all’interno del Tempio. Allora, il canto del Salmista, risuona ancora dentro di noi: Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antiche, ed entri il re della gloria. Quella porta che si alza dinanzi a noi non è solo la soglia che noi attraversiamo, ma anche ciò che proviene da un mondo altro, da un altrove che ristora e converte il cuore. La porta si apre e giunge a noi un silenzio colmo della presenza del Signore, un silenzio che lava le nostre cecità, rimanendo accanto a noi. Ecco, allora, risuonare la voce del salmista per cui non siamo solo noi ad attraversare la porta ma è la porta che spalanca su di noi la presenza del Signore. Non siamo noi ad entrare nel Tempio, ma è il Signore stesso che entra nel Tempio, per cui non c’è un entrare o un uscire, ma un incontro. Ecco, allora, perché la festa della presentazione al tempio del Signore, per l’Ortodossia, viene chiamata Hypapante, la festa dell’Incontro. Malachia ci ricorda questo incontro, questo ingresso nel Tempio del Signore in cui purificazione e giustizia sono una cosa sola quando ci incontriamo con il Signore. Il giorno della venuta del Signore, il giorno della purificazione grande e terribile non è fatto da fuochi d’artificio che producono solo effetti mirabolanti, ma da silenzio, vuoto e luce che generano in noi una conversione più profonda e radicale. Perché nel vuoto, silenzio e luce riscopriamo una presenza che si prende cura di noi. Di noi che siamo la stirpe di Abramo, come ci ha ricordato la Lettera agli Ebrei. Di noi che non siamo angeli e che, nel diventare angeli, tradiremmo la nostra stessa natura. E il Padre si prende cura di noi non attraverso minacce, estorsioni o obblighi, ma attraverso la compassione per le altre persone, nel riscoprire che il Cristo ha in comune con noi la carne e il sangue, che per questo è diventato sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova. In questa realtà di porta come incontro sulla soglia e sulle differenti soglie della nostra esistenza, riusciamo a contemplare anche il Cristo che giunge nel Tempio. Un passaggio dalla ritualità della Legge, per cui ogni primogenito viene presentato al Signore, ad una conversione dello sguardo di Simeone e Anna che guardano nel bambino il giorno grande e terribile del Signore, quando egli giunge nel tuo Tempio e diviene Tempio egli stesso. L’inno di Simeone potrebbe essere una risposta eccezionale all’apertura della porta di Simone Weil. Apertura che non viene fatta con spinte e colpi, ma attraverso l’attesa di tutta una vita. Simeone vede aprirsi, in Gesù, quella porta dinanzi a cui ha tanto atteso, quei desideri che aveva sempre posto dinanzi all’altare del Signore e che in Gesù trovano compimento. In un bambino di quaranta giorni, anche Anna inizia a ritrovare vigore e slancio, parlando di lui a tutti coloro che attendono la redenzione di Israele, a tutti coloro che attendono che quella porta si apri. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Inno e lode, parola e risposta dinanzi alle attese di questa umanità, dinanzi a chi spera ancora che quella porta si apri, che quella speranza si realizzi. Annuncio del Cristo che viene anche per chi ha ricevuto tante porte chiuse in faccia, tante speranze deluse e amareggiate. Perché dinanzi alla porta che ancora desideriamo e speriamo che si apra, avviene l’incontro con il Cristo Gesù.