Critica cristiana della ragion pratica
Dt 4,1-2.6-8; Sal 14; Gc 1,17-18.21b-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23
In questa domenica risuona in modo molto particolare la parola pratica. C’è una pratica a cui Mosè richiama e che riguarda la Legge del Signore, l’osservanza della Legge come segno dell’Alleanza nella Terra Promessa. E vogliamo provare a riflettere su questa dimensione della pratica ripartendo dal concetto di Dio che ritroviamo in Immanuel Kant, nella sua Critica della ragion pratica. C’è una ragion pratica, innanzitutto. Una ragione pratica che ci permette di cogliere nella pratica una ragionevolezza delle intenzioni, dell’atto, di ciò che facciamo. È una ragion pratica, quella di Kant, che postula Dio in quanto fonte del retto agire. Non possiamo dire, secondo Kant, se Dio esista o meno, ma fino a quando ci fa fare del bene e ci fa operare un bene categorico, ovvero un dovere per il dovere, allora possiamo dire che ci sia. Eppure, per noi che ci professiamo credenti e credenti in Cristo, quella ragion pratica non basta, ma cerchiamo ben oltre il dovere. Siamo pieni di discorsi sul dovere e sull’opportunità o meno di fare delle cose, mentre qui la ragion pratica che cerchiamo ci spinge a delle considerazioni più importanti e più alte. La prima considerazione che prendiamo dall’Esodo è che la Legge di Dio consiste in una pratica, in un mettere in pratica. Dove il mettere in pratica dice una distanza ermeneutica dalla Parola, dice che proviamo a decifrare quello che la Parola vuole dirci, oggi, nel nostro quotidiano. E in questo ritroviamo la presenza di Dio. Una pratica, dunque, che ci vuole fedeli alla terra, che ci chiede di rimanere su questa terra con sapienza e saggezza. Significa, in altri termini, che la pratica della Parola è quella capacità di essere saggi in questo mondo, in modo tale che anche altre persone possano riconoscerlo. Mettere in pratica la Parola significa, in altri termini, essere delle persone autentiche già qui, su questa terra. Tanto che il salmo che ci aiuta a pregare la Parola racconta di una persona giusta che è vicino al Signore, che dimora nel Tempio del Signore, nella misura in cui non fa male al suo prossimo, non lancia insulto al suo vicino, e così via. E l’apostolo Giacomo rincara e rilancia questo binomio fra Parola e pratica. Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi. Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo. Una Parola che viene piantata dentro di noi, una Parola che porta frutto nella misura in cui germoglia e fiorisce dentro di noi. Una Parola che si vede quanto la mettiamo in pratica. E se siamo solo ascoltatori della Parola rischiamo semplicemente di ingannare noi stessi con tante giustificazioni, tante tradizioni che possano mettere a posto la coscienza, possano drogarci di devozioni ma restare vuote di pratica. Se siamo uomini e donne di fede, in altri termini, si vede da come mettiamo in pratica la Parola, da come viviamo, non dalle divise, non dai paramenti, non dalle tradizioni civili che possiamo vivere, non dal folclore religioso. Si vede da come partecipi alla vita di questo mondo. Ed è su questo punto che Gesù torna a battere nel Vangelo. L’ansia dell’impurità che prende i farisei diviene la gabbia entro cui schematizzano i discepoli di Gesù. Tradizioni divenute così importanti da soffocare la Parola stessa, impedendo che altre persone possano sedersi a tavola con loro, diventando una cerchia chiusa. Tradizioni su tradizioni che chiudono i gruppi, le comunità, anche le parrocchie, che pian piano si sgancia dalla pratica della Parola come anche dalla prassi pastorale. Così i precetti degli uomini diventano più importanti di un incontro intimo con il Signore, un incontro che purifica il cuore, il centro nevralgico di ogni persona, lì dove si annidano tutte le sporcizie che contaminano il mondo. Tutti i propositi di male, dunque, vengono sottoposti da Gesù al vaglio di una critica della ragion pratica, perché le pratiche non sono semplicemente i precetti degli uomini, ma un imparare a purificare il cuore. Una pratica di rischiaramento del cuore che è la vera spiritualità, che è quella capacità di leggersi dentro attraverso la Parola e nella Parola riuscire a scoprire quegli angoli più brutti, che non ci permettono di risplendere ma che ci sporcano dentro. A questo, allora, serve una critica della ragion pratica all’interno della vita spirituale, perché nella pratica quotidiana riusciamo a scendere fin nelle fondamenta del nostro essere. E lì, nella pratica quotidiana della Parola, nella pratica quotidiana in questa terra, riusciamo a ripulirci dentro e ad essere persone non solo di doveri, ma persone belle, nella bellezza del Figlio Gesù Risorto.