Costruire, demolire e abitare
In uno dei suoi libri più famosi, Costruire e abitare, il sociologo Richard Sennet pone una differenza fra le due attività che, a prima vista, sembrano caratterizzare le città. Due azioni, costruire e abitare, che non è detto vadano sempre e comunque in sintonia. In altri termini, non è sempre detto che costruire sia sinonimo di abitare e che la qualità dell’abitare equivalga alla dimensione del costruito. Abitare una città, dunque, non significa sempre e solo costruire, come il costruito delle nostre città non equivale ad una maggiore qualità dell’abitabilità delle nostre città. Anzi, sembra che oggi ci ritroviamo dinanzi alla discrasia fra il costruito e l’abitato. Da una parte un grande numero di edifici, spesso anche disabitati, e dall’altra una sempre maggiore scarsità dell’abitare. La maggior parte dei problemi delle grandi città, infatti, si cristallizzano intorno alla declinazione fra costruire e abitare. Allora, come poter ristabilire una certa armonia fra costruire e abitare? Proviamo ad inserire un terzo termine che è il demolire. Dopo gli anni delle grandi opere, del post conflitto bellico e dell’emergenza della pianificazione degli alloggi, ci stiamo accorgendo che la città non vive semplicemente per il suo costruito ma, soprattutto, per l’abitabilità. E abitare una città significa anche saper creare interruzioni, pause, spazi di non costruito e, ancora di più, di demolito. Una sorta di horror vacui, di timore del vuoto, ha caratterizzato e, per certi versi, continua a caratterizzare ancora le nostre città. Eppure, le città vivono e si trasformano nella loro abitabilità non solo grazie al costruito ma anche grazie al demolito. Ripercorrendo la storia delle città, ci accorgiamo come le grandi rigenerazioni sono avvenute grazie alla demolizione di vecchie strutture per lasciare spazio alle nuove. Demolire, infatti, non è solo una questione urbana, ma una affermazione del potere all’interno delle città, in modo particolare dei poteri emergenti. Poteri politici, religiosi, culturali, hanno sempre trasformato le città demolendo l’esistente per affermare la propria supremazia. Oggi, il demolire parti di edifici non riguarda solo l’affermazione di un qualsivoglia potere, ma comporta una strategia di cambiamento e resistenza trasformativa delle nostre città. Demolire, dunque, acquisisce un significato nuovo, un cambio di segno in chiave progettuale, non solo per ricostruire edifici sempre più innovativi, ma per offrire nuove possibilità trasformative alla città stessa. Salvaguardando il patrimonio come strumento per imparare a costruire e ricostruire nuovamente le città, demolire ha anche una valenza progettuale e olistica. Se il potere ci ha insegnato che demolire significa radere al suolo parti della città per ricostruirle secondo una affermazione del proprio potere, oggi demolire ci permette di riconoscere un approccio olistico alla città, fatta di parti che interagiscono con un tutto e che possono essere sostituite. Questo criterio progettuale di demolizione, ci porta non a radere al suolo ma a modificare gli edifici con tecnologie innovative, sostituendo parti e porzioni dell’edificio. In questo senso, allora, occorre una progettualità non solo del demolire ma anche e soprattutto del costruire in maniera olistica, con interazioni e strutture modificabili. In questo si manifesterà la nostra capacità di abitare e riabitare le città, in continua trasformazione.