Cosa è la metafisica urbana?
La filosofia contemporanea è sempre più restia ad utilizzare il termine metafisica. Dopo lo storicismo, lo strutturalismo e il decostruttivismo, tanto per citare le maggiori correnti filosofiche dell’Ottocento e Novecento, siamo nell’era della post-metafisica. Dove per metafisica si intende tutto ciò che è astratto, assoluto, eterno ed immutabile. Per intenderci, è quel concetto di metafisica che, condensato nei secoli, ha formato una sorta di pregiudizio metafisico sulla stessa metafisica. Come abbiamo già avuto modo di scrivere altrove, noi utilizziamo il concetto di metafisica nell’accezione florenskijana del termine. Il filosofo Pavel Florenskij, infatti, parla di metafisica concreta, come quella capacità di tenere insieme l’uno nei molti, come anche l’uno nel tutto. In una personale reinterpretazione di questa intuizione (sulla) metafisica, crediamo che la metafisica non sia qualcosa di astratto o di morto, ma un processo di tessitura dell’esperienza. La metafisica, non è qualcosa di lontano dalla realtà, ma un processo attraverso cui ogni pensatore cerca di tenere insieme le sue particolari esperienze, i suoi incontri, le sue letture, i suoi linguaggi espressivi, le sue conoscenze in ogni campo e in ogni ambito. Si tratta, insomma, di andare metà ta fysikà, oltre il fisico per tessere insieme la complessità dell’esistente. Per questo, poi, ogni pensiero sviluppa una propria metafisica, un modo per tenere insieme le cose, il quale diviene un modo politico per gestire e portare avanti la vita. Se questa è, dunque, la metafisica, l’epoca che stiamo attraversando ci spinge a ripensare in maniera metafisica non secondo un paradigma di immobilità delle teorie, ma secondo la caratteristica della transizione. Non stiamo affrontando un cambiamento d’epoca, ma l’epoca dei cambiamenti, per cui la transizione è la condizione ordinaria della nostra epoca. In modo particolare, per quanto riguarda l’ambito dei nostri studi, è la città il principale campo di transizione storica e sociale, intensa come condizione ordinaria dell’esistente. Le città sono chiamate, oggi, ad affrontare in maniera sempre più repentina rispetto alle epoche passate, i cambiamenti ambientali, climatici, lavorativi, sociali dei propri abitanti. La domanda che ci poniamo, allora, è se la governamentabilità delle città, in questo senso, possa aver bisogno di una metafisica. Se, come abbiamo affermato, la metafisica è la capacità del pensiero di tenere insieme, di tessere le varie esperienze, allora riteniamo che ogni governance della città abbiamo bisogno di una elaborazione metafisica. Elaborazione che riguardi sia la capacità di tenere insieme la complessità delle transizioni come condizione ordinaria delle città, sia come possibilità di pensare una gestione amministrativa della città in sintonia con tutti gli enti, i soggetti, le comunità, le associazioni presenti nella città, sia come riflessione e analisi delle condizioni di vita e della qualità dell’abitare le città e i territori. Invece di una politica che guardi solo e soltanto alle urgenze, al tamponare delle situazioni, alla lentezza asfittica delle procedure burocratiche, la metafisica può aiutare a pensare rimanendo nelle transizioni, rimanendo all’interno dei cambiamenti, tenendo insieme la complessità delle vicende urbane. Del resto, già Platone scriveva che il governo di una città ideale spetta ai filosofi. Se questo non avviene, perlomeno si inizi a pensare ad una metafisica urbana, in grado di tenere insieme la complessità.
Questo approccio potrebbe anche andar bene per le questioni sociali, “l’uno nel tutto” e interrogarci su come le dinamiche sociali pongano invece l’attenzione sul solo tutto, Come se il tutto fosse un un’individuo astratto a cui assoggettarsi e non invece come l’insieme delle esigenze individuali dei singoli individui…
Metafisica del sociale allora significa tornare dall’astratto concetto di società a quello reale di individui in un contesto comune.
La politica, diceva Aristotele, é tra le scienze pratiche quella architettonica, sarebbe a dire quella che tiene insieme tutte le altre scienze (ben inteso, pratiche!). La metafisica dà per natura uno sguardo di insieme, cosi come un uomo guarda un paesaggio dal belvedere; bellissimo si, ma distante. Quel generale, quell’insieme delle esperienze tessute nella metafisica deve farsi pratica nella politica e nella cittadinanza attiva. Mi chiedo se sia davvero necessario allora pensare anche una metafisica cosi attiva, quando il suo compito, a mio parere, é sempre stato quello di raccogliere, tenere insieme con uno sguardo. Al contrario auspico che sia la politica a ritornare all’origine del significato del suo etimo: la felicità nella polis, nella città. Magari ai filosofi non importa più di governare la città, sarebbe più interessante, invece, vedere qualcuno che si metta in gioco perché possiede le competenze, lo studio, anzi la sapienza intellettuale e la saggezza pratica per farlo.
Partendo dal tuo punto di vista generale vorrei scendere di scala ed applicare la tua tesi all’architettura.
Trascuro l’aspetto che l’architettura abbia come condizione ontologica la metafisica, cioe’ il rimando a qualcosa di “altro” oltre la fisicita’ e la funzionalita’.
Rimango sul tema della metafisica quale azione di collocazione di uno tra i molti.
La questione e’ il rapporto del costruito architettonico col contesto. Il contesto e’ uno stato di fatto spazio-temporale cioè “quello che trovo” in un ambito geografico, a seguito di una evoluzione storica.
L’architettura, quando si pone, cioè si edifica, esprime un giudizio sul contesto, sempre e comunque, qualunque sia il livello culturale di chi l’ha ideata e realizzata.
L’architettura e’ quindi un giudizio, nell’ambito del suo intorno, sulla Natura, sull’edificato e sulla tradizione.
Oggi qual’e’ il tipo di giudizio prevalente?
Ne individuo 2.
Il giudizio consumistico: sfrutto il contesto per produrre utile nel presente
Il giudizio consevativo: non fare nulla perché non abbiamo ancora elaborato una teoria dell’ “inserimento del nuovo” in un contesto storico se non in termini di contrasto e distacco.
Secondo me la via da percorrere e’ quella della evoluzione nella tradizione, della ricerca del rapporto con la tradizione nella contemporaneita’.
Per dirla in termini meramente esecutivi: sostituire alla cultura della sostituzione edilizia quella della superfetazione, dell’apporto in aggiunta in derivazione.
E’ una via più faticosa e più costosa che impone lo studio consapevole dei sensi di una evoluzione urbana e formale. E’ una via che ci eviterebbe il rischio della omologazione e dello sradicamento storico-culturale.