Città in trasformazione: una nuova utopia?
L’epidemia da Covid-19 non ci ha lasciato solo un immenso vuoto dentro, ma ci ha insegnato anche a fare i conti con la realtà. Una realtà il cui tratto caratteristico è quello della mutevolezza, dell’improbabilità che avviene, dell’imprevisto. Il Covid-19 ha mutato, fin dalle fondamenta, il nostro vivere civile in quanto ci ha fatto risvegliare dal torpore delle nostre ubriacature di dominio e di sorveglianza per farci fare i conti con ciò che meno ci attendevamo, con ciò che meno sembrava possibile, con una realtà sociale e ambientale che rivendica, in qualche modo, forme di custodia e cura, oltre che di tutela. Ebbene, in questo nuovo panorama che si viene a creare, nella progressiva uscita dalla pandemia, un elemento importante può essere posto al centro delle nostre riflessioni sulla città: le trasformazioni. Fino ad oggi abbiamo inteso la nostra epoca come epoca delle trasformazioni. Tuttavia, sotto l’idea di trasformazione si celava, in maniera più o meno espressa, l’idea per cui la trasformazione fosse l’innovazione. Trasformare gli ambienti, la società, le città, significava creare qualcosa di sempre nuovo, che ci facesse dimenticare il vecchio, che portasse con sé anche una buona dose di tecnologia in modo da rendere esprimibile l’innovazione. In altre parole, trasformare qualcosa significa renderla nuova, far sì che sia al passo con i tempi, al passo con le accelerazioni che il tessuto sociale pone. In questa prospettiva, dunque, il vecchio è semplicemente lo scarto, ciò che non è al passo dei tempi, ciò che non serve più, ciò che non viene più richiesto sia dal mercato sia dalle funzioni che espletava. Il vecchio è ciò che viene buttato, è il rifiuto, l’obsoleto. Mentre il nuovo è il veloce, l’intelligente, il sensitivo, l’intuitivo, corredato da una veste grafica sempre più innovativa e accattivante. E questo senso di trasformazione come innovazione ha investito tutti gli ambiti sociali, culturali, economici, politici, urbani. Trasformazione fa rima con il nuovo che avanza. Tuttavia, l’innovazione non ci ha permesso di fare i conti con l’imprevisto e questo imprevisto che è cresciuto all’ombra dell’innovazione è stato quanto di più distruttivo ci potesse essere, in quanto ha posto un freno all’innovazione, un freno alle trasformazioni, paradossalmente, trasformandosi anche come imprevisto. Il virus stesso, infatti, è una trasformazione legata al fenomeno della zoonosi e le varie varianti in circolazione, sono altrettante trasformazioni del virus. Nel moltiplicarsi delle trasformazioni, anche l’imprevisto è stato dato da una trasformazione incontrollabile. Dinanzi a tutto questo, allora, cosa ci rimane da fare? per prima cosa iniziare a ripensare le trasformazioni. Sganciare l’idea di trasformazione dall’idea di innovazione ci permette di guardare alla trasformazione secondo un altro paradigma che è quello della resilienza o della resistenza, che dir si voglia. Si tratta di pensare alle trasformazioni come forma di resistenza, di pensare ad una città che sa fare della trasformazione il suo punto di forza, la sua stessa forma. Nei primi mesi del lockdown dell’anno scorso, ci siamo resi conto che le industrie che non hanno chiuso sono quelle che hanno saputo trasformare la loro produzione, riconvertirla e passare dalla produzione di indumenti a quella di mascherine. La trasformazione è stata guidata da un bisogno e ha visto alcune aziende capaci di resistere alle ristrettezze trasformando i cicli di produzione. Se questa idea venisse adeguata alla città, cosa accadrebbe? Se iniziassimo a costruire strutture in grado di trasformarsi secondo i bisogni, cosa accadrebbe alla nostra città? Che forma avrebbe? Si tratterebbe di costruire strutture in grado di cambiare destinazione, di non avere una sola funzione, ma di recepirne tante. Per questo significherebbe uscire dal singolo legame fra struttura e funzione, in cui una singola funzione dà forma alle singole strutture, e unire più funzione ad una stessa struttura. In questo modo, la struttura stessa potrebbe cambiare a seconda dell’uso, potrebbe essere riconvertita con facilità, potrebbe trasformarsi a seconda anche degli imprevisti della città. Non si tratta, semplicemente, di riconvertire strutture o far sì che alcune strutture diventino contenitori di differenti funzioni, ma si tratta di progettare già una struttura che abbia differenti funzioni e che queste funzioni possano anche accogliere l’imprevisto, accogliere ciò che non consente la loro fruizione in determinate circostanze. Delle strutture ibride, per cui se non posso esplicare una determinata funzione, ne posso fare altre. Fino a concepire una nuova utopia di città, una città in trasformazione, non perché è si rinnova continuamente, ma perché è in grado di adeguarsi alle trasformazioni, di crescere come un organismo vivente, rigenerandosi.