Cecità e debolezza
Ger 31,7-9; Sal 125; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52
In un paese sconosciuto, in una città mai nominata, un uomo, improvvisamente, diventa cieco. Inizia a vedere tutto bianco e non riesce più a cogliere le sfumature della realtà. Perde completamente la vista e, nell’ansia di voler tornare a casa per capire cosa sia successo, viene accompagnato da un’altra persona che si scopre essere un ladro. Incontra sua moglie e insieme vanno dall’oculista per cercare una spiegazione a questa sua cecità. Visitando il paziente, chiamato il primo cieco, l’oculista non riesce a spiegarsi il perché della sua cecità. Tuttavia, improvvisamente, la moglie del primo cieco, l’oculista, gli altri pazienti dell’oculista, iniziano a diventare tutti ciechi. Persino il ladro che aveva rubato la macchina al primo cieco, ecco che diventa cieco a sua volta. La cecità inizia a diventare una malattia contagiosa fino a creare ghetti, case di reclusione e manicomi per gli infetti. Ma, alla fine, anche le guardie vengono infettate. Solo una donna, la moglie dell’oculista, conserva la vista, fino a scappare dal manicomio e ad incontrare una città che ormai è in preda ad una epidemia di cecità. E camminando per le strade della città, ecco che la moglie del medico inizia a tessere legami di solidarietà con gli ammalati di cecità, fino a quando la pandemia scompare così come era iniziata. Questo è Cecità del premio Nobel Jose Saramago, ultimamente riemerso e riletto durante la pandemia da Covid-19. Un romanzo che mette in evidenza le strutture di potere e di segregazione che la società odierna mette in atto per sedare tutte le malattie o possibili malattie, come anche il bisogno di solidarietà che emerge non in una situazione che definiremmo di normalità, ma in una situazione di debolezza. Ed è proprio su questa parola, debolezza, che paradossalmente, vogliamo guardare attraverso la cecità presentata da Saramago e dal Vangelo stesso. Cecità, infatti, è ciò che colpisce il figlio di Timeo, Bartimeo, e che lo relega ai bordi delle strade. È quella cecità che rende deboli, quella cecità che il mondo e la società della performance non tollera. Quella debolezza che non è richiesta da chi lavora e da chi si deve adeguare a degli standard per non essere scartato. Quella debolezza che dobbiamo nascondere per essere sempre sul pezzo, sempre prestanti, sempre normo abili o, peggio, super abili. Quella performatività che ci fa alzare presto e che ci fa lavorare tutto il giorno, per poi tornare a casa e addormentarci per la stanchezza, senza più voglia di fare nulla. Quella performatività che non accoglie la debolezza e che non tollera debolezze, che è così cieca dinanzi alla nostra strutturale debolezza che preferisce segregarla piuttosto che accompagnarla e accoglierla. La cecità di Bartimeo rivela, allora, non solo un suo difetto fisico, ma una contagiosità della cecità che ci fa scartare le persone per la loro debolezza senza accorgerci della nostra stessa debolezza. In questo consiste la cecità dinanzi alle situazioni della vita, dinanzi alla realtà che viviamo, dinanzi alla quotidianità dell’altro. Una cecità contagiosa in quanto ci richiama alla nostra debolezza e, al tempo stesso, sfugge alle logiche dello standard e della normo abilità. Bartimeo è un debole che i discepoli segregano sempre più ai margini, ed è questo che ci sconcerta maggiormente in quanto quei discepoli potremmo essere benissimo anche noi che diventiamo ciechi dinanzi alla cecità dell’altro, in una contagiosità estremamente pericolosa. Allora, quando Gesù riapre gli occhi di Bartimeo, ridona la vista anche ai discepoli che leggono il Vangelo, ridona la vista anche a noi e ci fa rende conto che siamo noi i discepoli ciechi, che seguono Gesù, che si mettono, con Bartimeo, a seguirlo per le strade del mondo. Allora, in questa nuova ottica, la cecità apre gli occhi sulla nostra debolezza. Su quella debolezza che è attesa del Signore, in cui il Signore entra per consolare il suo popolo e per farlo tornare dall’esilio. Infatti, come ci ricorda il profeta Geremia, coloro che ritornano non sono eserciti o uomini forti, ma fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Ci sono persone che fanno fatica a camminare, persone deboli, socialmente vulnerabili. E sono queste persone che tornano in Israele, sono queste persone che ci aiutano a vedere la nostra cecità e a pensare in maniera differente, a pensare con uno sguardo nuovo sulla realtà. Uno sguardo che non cerca sempre e comunque la performance, che non insegue il profitto a tutti i costi, ma si accorge di essere debole. E nella nostra debolezza ci accorgiamo della presenza del Signore, in quel Gesù che si è fatto debole per noi, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei. Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Offrire il sacrificio, dunque, significa sentire giusta compassione essendo anche noi rivestiti di debolezza, ovvero significa riconoscere che siamo tutti deboli, che nessuno può accaparrarsi un privilegio per la forza che possiede, ma ognuno è chiamato a servire gli altri, per compassione. Senza questo binomio, senza questa diretta proporzione, possiamo anche ripetere i riti, ma non contemplare le grandi cose che il Signore fa per noi. Senza compassione, senza quella diretta proporzione fra grazia e debolezza, fra la sua luce pasquale e le nostre cecità, possiamo anche mettere in atto dei riti, ma non guardare con occhi rinnovati la realtà. Ed è per aprire lo sguardo sulla nostra debolezza e sentire compassione per le debolezze delle altre persone che il Signore Gesù è venuto e ha camminato in mezzo a noi.