Antropocene urbana
Durante i nostri dialoghi fra filosofia e città, tenuti a Bisceglie a fine maggio, l’architetto Matteo Di Venosa ha incentrato la sua riflessione sull’era dell’antropocene. Da più parti si sente parlare di questa nuova epoca che stiamo attraversando. Epoca in cui l’essere umano non solo è diventato l’essere predominante nello spazio naturale ma è giunto ad un tale livello di dominio sugli elementi naturali da poterli distruggere, da rischiare di distruggere se stesso e tutto il pianeta in un solo secondo. Secondo alcuni filosofi, l’epoca dell’antropocene è iniziata nel momento in cui stata sganciata la prima bomba atomica, nel 1945 su Hiroshima e Nagasaki. In quel preciso momento, l’essere umano ha acquisito la consapevolezza del suo potenziale distruttivo, tanto da scatenare le impressionanti riflessioni di Günther Anders nel suo celebre L’uomo è antiquato. L’era dell’antropocene, dunque, fa emergere con sempre più nitidezza quanto l’essere umano sia in grado di scatenare potenze in grado di distruggere tutto, compreso se stesso. In questa prospettiva, allora, lo stesso essere umano, nella sua struttura antropologica, entra in crisi. E la crisi antropologica, in quest’epoca, è proprio in riferimento al limite. Perdita di limite che di fenomenizza maggiormente nella città. Assistiamo ad una continua perdita di limite, di confini e, dunque, di tracce e tracciati, perché un confine è sempre e comunque porre una traccia. E la perdita di una traccia, di un confine, di un segno da non oltrepassare o da poter oltrepassare, tende a formare nuovi spazi e nuovi contenuti. In questo senso, oggi, si parla sempre più di ibridazione, intesa come commistione fra spazi e idee che non sono più nette e decise. E, paradossalmente, più parliamo di ibridazione, di commistione, di confusione, più cerchiamo delimitazioni, confini, dualismi su cui fondare le nostre opinioni. La maggior parte della propaganda populista o sovranista si gioca proprio sui dualismi netti e decisi, se non addirittura semplificativi e semplicistici. In questa epoca, dunque, ci muoviamo e in questa epoca abitiamo le città, perdendo i segni e i significati degli spazi e delle prospettive. In questo senso, Di Venosa, parlava di un recupero urgente della progettualità e della cultura del progetto. Dove per progetto non intendiamo solo una programmazione di cose da fare, ma un essere pro-gettati nei confronti dell’altro, nei confronti del fuori. Un essere pro-gettanti che ci rende pro-gettanti nuovi modelli abitativi e nuove prospettive urbane. Ma per essere pro-gettati e pro-gettanti, occorre recuperare il senso del limite, del limen, della traccia, del segno che incide sulla terra. Per poter andare oltre quel segno, per porre nel segno stesso un margine d’azione, partendo da ciò che già abbiamo. In questo senso Di Venosa parlava del bricoler ovvero di quello stile per cui uno stabilisce un obiettivo e lo realizza partendo da quello che ha, da ciò che possiede. Da questa prospettiva, dunque, il progetto genera pianificazione e azione, adattando e accompagnando pratiche e progetti in cui il tempo diviene un fattore determinante. Dove la temporalità è costituita anche di cicli vitali per cui ci sono pratiche che nascono, crescono e terminano, per lasciare spazio ad altre. In questo modo, possiamo costruire processi nuovi di governance, sia a livello istituzionale sia per un orientamento in situazione. Queste saranno le competenze del domani e in questo senso corre la formazione per costruire professionalità.