Alloggi popolari e criminalità organizzata
Uno dei fenomeni urbani più rilevanti e, forse, anche più interessanti della nostra contemporaneità è il rapporto della città con la criminalità organizzata. Per criminalità organizzata, non intendiamo solo il fenomeno mafioso che porta con sé tutto un retaggio storico che, in quanto fenomeno, si evolve, nasce e, speriamo quanto prima, muoia. La criminalità organizzata, dunque, non è solo la mafia ma è una gestione del potere non istituzionale all’interno delle città. Si tratta, insomma, di un potere sommerso, di un potere che non è legittimato dalle istituzioni ma che, tuttavia, è presente sul territorio. Un potere che gestisce i suoi affari in un disconoscimento delle istituzioni che, purtroppo, alle volte, stabiliscono con il potere della criminalità organizzata un sodalizio. Si tratta di un fenomeno trasversale che attraversa le piccole città come le metropoli, che punta non solo sulle attività criminali ma sulla organizzazione di esse all’interno della città. Come se, per dirla in altri modi, un potere impianti il suo controllo su una città, per gestire i propri affari, trasformando la sfera pubblica in proprietà privata. Il perno di ogni criminalità organizzata, dalle piccole città alle medio grandi fino a giungere alle metropoli, è quella di stabilire un controllo sul territorio per poter trasformare la sfera pubblica in privata. Prendendo spunto dalla Relazione della Commissione d’indagine della Prefettura che ha portato alla caduta dell’amministrazione comunale della città di Trinitapoli per infiltrazioni di clan mafiosi, vogliamo ripensare al rapporto fra città e criminalità organizzata. Per cui una prima radice di criminalità organizzata è nella riduzione della dimensione pubblica a fattore privato. Il principio della criminalità su un territorio nasce da questa appropriazione dello spazio pubblico a scapito di una partecipazione alla dimensione pubblica. Ciò che possiamo, dunque, definire come criminale, non è in prima istanza, il gesto efferato, ma un ritrarsi della partecipazione pubblica all’interno della sfera privata e una appropriazione della realtà pubblica nella gestione privata, in una organizzazione. Non si tratta semplicemente di una assenza delle istituzioni ma di una gestione della cosa pubblica attraverso una volontà privata. Questa organizzazione privata del pubblico, dunque, è ciò che produce potere su un territorio, ciò che garantisce e salvaguardia il potere del privato sulla città. Un potere, dunque, non più democratico, ma di stampo feudale, con una divisione dei confini, una spartizione dello spazio, una appropriazione della forza. La sola cosa che garantisce la democrazia all’interno di una città è la partecipazione alla realtà pubblica, alle decisioni che riguardano tutti, in quanto città. Se le decisioni diventano appannaggio di pochi si costruisce un potere altro sul territorio, che garantisce la propria sussistenza attraverso la volontà, la forza e la paura. Esempio emblematico di questa situazione di appropriazione della dimensione pubblica sono state, sia per il comune di Trinitapoli sia per le grandi metropoli, le case popolari. La gestione delle case popolari, oltre ogni assegnazione pubblica, è il fenomeno criminale più ambito in quanto significa esercitare, come sovrano, un potere sulla cosa pubblica, su un diritto che, in quanto democratico, chiama alla partecipazione di tutti. Il potere di assegnazione di una casa ad una persona piuttosto che ad un’altra è criminale non solo perché contravviene alle leggi, alle graduatorie e al diritto di uno piuttosto che di un altro, ma perché rende proprietà privata, dominio sovrano del privato, la realtà pubblica. La gestione delle case popolari da parte di un privato, quindi, oltre a rinforzare i legami clanici, pone un dominio su tutta la sfera pubblica, anche dinanzi a quei cittadini che non hanno bisogno di alloggio. Diviene, al tempo stesso, fondamento di legame e manifestazione della propria potenza dinanzi a tutti. Nascita di un potere tumorale all’interno del corpo città.
Fondamentale questa affermazione: un diritto in quanto democratico chiama alla partecipazione di tutti. Mi ha fatto ricordare quando la preside Rosina Basso, nella lezione di democrazia, alla scuola di formazione sociopolitica di Cercasi un Fine ci ricordò quella famosa frase che dice: LE LEVE DELLA DEMOCRAZIA LE HA IN MANO IL POPOLO, SE IL POPOLO NON C’È LA DEMOCRAZIA NON FUNZIONA. Ed é vero don Matteo, sono convinto che molti guai della nostra società, sono dovuti alla mancanza di partecipazione dei cittadini. Che peccato.