Città miniera
Pietre, roccia, ferro e plastica, materiali che danno forma alla città. Una forma che chiamiamo architettura o, meglio ancora, una forma creata o prodotta dall’architettura stessa. Non come disciplina a se stante ma come rappresentazione dell’essere umano, come taglio antropologico che si esprime attraverso l’architettura e nell’architettura offre una forma alla città. Prospettive antropologiche offerte dalla filosofia e rielaborate nella filosofia, hanno dato forma alla città attraverso il linguaggio dell’architettura, dall’antropocentrismo dalla decentralizzazione dell’essere umano. Ogni città, insomma, riflette l’essere umano, riflette chi ci abita. Ed è questo il problema fondamentale e, se vogliamo, anche la sfida di ogni città: la sua abitabilità. Dove l’abitabilità consiste in una continua ermeneutica fra umano e urbano, fra la città e i suoi abitanti. Una ermeneutica che, quando viene a mancare, sviluppa una disarticolazione fra l’essere umano e il suo ambiente, fra l’umano e la città, fino a non riconoscere né se stesso né la città in cui vive. Una disarticolazione che ha bisogno di riprendere la forma dell’architettura, la forma che l’architettura stessa può offrire alla città. In quest’ottica, Mario Cucinella parla di città miniera. L’idea di fondo è concepire la città come una miniera in cui sono presenti già tutti i materiali che servono per costruire altre città, altri edifici innovativi e contemporanei. Ferro, acciaio, cemento, vetro, pietra, tutti materiali di risulta delle costruzioni precedenti possono essere riutilizzati per l’edificazione di nuovi edifici. È esattamente ciò che hanno compiuto i nostri antenati nelle città precedenti, quando ad un paradigma antropologico se ne è sostituito un altro. Così i marmi del Colosseo furono utilizzati per la costruzione del loggione di san Pietro in Vaticano, oppure colonne di templi antichi sono stati utilizzati per la costruzione di nuove chiese. Il paradigma antropologico cambia e la città si trasforma in una maniera, in un luogo in cui i materiali possono essere prelevati da un edificio e utilizzati per la costruzione di nuovi edifici. Se questo è stato possibile nell’antichità a causa delle differenti concezioni dell’essere umano, attraverso i cambi di cultura che si sono susseguiti, potrebbe essere possibile ancora oggi. Tuttavia, la domanda che ci possiamo porre è: qual è il cambiamento antropologico di fondo? Il concetto di città miniera è possibile nella misura in cui la città stessa cambia la sua prospettiva sull’essere umano, allora qual è il cambio che ci occorre mettere in atto? Probabilmente, la svolta antropologica che può aiutarci a ripensare le nostre città come miniera è proprio nel passaggio da esseri umani consumatori ad essere umani sostenibili. Per anni abbiamo pensato e continuiamo ancora a pensare a noi esseri umani come individui che consumano. Non importa chi o cosa, l’importante è che la relazione e la percezione del mondo sia quella del consumo. Il passaggio da poter mettere in atto è dal consumo alla sostenibilità. Dove il sostenibile è colui che autogoverna se stesso attraverso ciò che già ha, attraverso le risorse che già possiede. Si tratta, dunque, di un cambio antropologico che non vede invadere, conquistare, innovare e colonizzare, ma fare i conti con i propri limiti, con la propria fragilità e impotenza. Un cambio che, paradossalmente, rendere le nostre città miniere di nuovi sviluppi, nuovi approcci, nuove prospettive in cui ciò che davvero conta con è il prodotto, ma la comunità.
Cucinella ci arriva con 9 secoli di ritardo.
“Siamo nani sulle spalle dei giganti“ scriveva Bernardo di Chartres nel XII secolo.
La modernità ha preferito sostituire i nani al posto dei giganti e ha risolto semplicisticamente il problema.
Usare il Caterpillar ed i martelli demolitore è notoriamente più economico che ristrutturare e spraelevare con materiali e linguaggi lievi.
Ho tentato per una vita di sostenere che l’alternativa alla demolizione e ricostruzione avrebbe potuto essere mantenere la storia, integrandola nel nuovo, utilizzando vecchi edifici come basi architettoniche di nuovi, sfruttando le potenzialità della tecnologia. La mia è stata una ricetta perdente e la Storia mi ha dato torto. Solo che oggi la relazione generale del Pug ci dice che gli edifici postbellici delle zone centrali sono troppo densamente abitati e bisogna diradare i volumi già edificati. Inoltre nei quartieri di nuova edificazione si e’ perso il senso della bellezza. Al danno la beffa.
Dell ‘ultimo mezzo secolo portiamo a casa solo l’ integrazione dell’arco di via Guarini e qualche salvataggio, da demolizioni in corso, di elementi architettonici di pregio , operata da cultori della conservazione i quali li hanno reintegrati nelle loro residenze.
Cito per tutti l’arco del Gardello salvato dall’avv.Ingravalle.
Se il “peso” della storia è insostenibile, se i suoi prodotti non sono risorse ma ruderi, se il solo scopo è produrre e se rimuovi amo il fine più profondo del nostro esistere-abitare in una comunità urbana, allora le tesi di Cucinella appaiono lacrime di coccodrillo e quindi vale il verbo evidenziatoci da Capossela : All can you eat!