Il co-housing: l’abitare collaborativo
Ognuno ci sa per quel che vuole, per quel che può, per quel che lo fa stare bene. Questa è una delle frasi che più rappresenta il co-housing, l’abitare collaborativo. Una maggiore valutazione delle nuove tipologie di famiglia spinge a ripensare non solo la famiglia tradizionale o che dir si voglia, ma soprattutto il modo di abitare all’interno delle città. Sempre più vanno crescendo famiglie mononucleari, formate da un singolo individuo, oppure famiglie polinucleari che vedono non solo il ritorno in famiglia di alcuni già appartenenti, ma anche il partire di altri membri del nucleo famigliare. Questo spostamento della famiglia verso nuovi orizzonti, ha bisogno di nuove forme di abitare. Infatti, l’abitare è specchio della società, del modo attraverso cui le persone intrecciano relazioni fra di loro. Il co-housing, letteralmente abitare collaborativo, è una di queste forme di abitare. Co-housing non è solo abitare condiviso, ma abitare collaborativo. Si tratta di un modo di abitare intenzionalmente in comunità, più famiglie o semplicemente più individui che non hanno fra di loro legami di sangue. Un abitare insieme che ha, come fondamento, l’intenzionalità. Questo è ciò che differenzia il co-housing da altre tipologie di abitare condiviso che vanno dal co-inquilino allo studentato, all’affitto di una camera. Non si tratta, dunque, solo di un vivere insieme per condividere le spese, ma di un progetto di riscoperta dell’altro attraverso la quotidianità. Chi vive in co-housing, insomma, opera una scelta di campo che lo porta fuori dalla prestazionalità e dalla funzionalità del vivere per abitare e abitarsi in maniera differente. Infatti, ci sono progetti di co-housing estremamente complessi, anti gerarchici, di scelta di collaborazione e condivisione degli spazi, con una riscrittura e pianificazione degli stessi ambienti di condivisione. Per questo, il co-housing è un’esperienza di casa diffusa e ripensata secondo le esigenze individuali e collettive, personali e comunitarie, la cui progettazione impatta sulla fatica relazionale degli abitanti. Fatica che genera il valore sociale del vivere collaborativo. Fatica che riguarda il darsi delle regole, l’affidare la supervisione del progetto ad un esterno, la capacità di scegliere insieme verso dove e come investire i risparmi, la gestione degli spazi condivisi. Si tratta, allora, di una esperienza che tiene dentro intenzione personale e progettualità comunitaria al fine di superare le solitudini del tessuto sociale, le quali insistono anche nella co-presenza senza collaborazione, senza intenzionalità. Nei mezzi pubblici, molte persone sono insieme, uno accanto all’altro, ma orientate verso un carattere prestazionale della sfera pubblica e delle azioni private. Invece, il co-housing mette in gioco l’esperienza del pubblico come elemento collaborativo all’interno della casa stessa, all’interno del proprio ambiente esistenziale fino ad offrire la possibilità di ripensare il vissuto di ciascuno e ciascuna. In altri termini, molte delle solitudini che la società e il modo di abitare produce, potrebbero essere risolte attraverso una maggiore interazione e intenzionalità progettuale del vivere insieme. Verso questa direzione si potrebbero spingere molti degli interventi urbanistici e, soprattutto, educativi. Interventi che cercano di intraprendere una strada differente da quella della prestazione e della funzionalità per una maggiore sostenibilità personale, sociale ed economica. Sostenibilità che ci dice che è ancora bello vivere abitando se stessi in una corresponsabilità collaborativa.