Aylesbury Estate: un documentario comunitario
Aylesbury Estate del 2020 è un documentario di Calotta Berti, narrato dalla stessa autrice per Tracce urbane, sull’omonimo complesso di social housing londinese in fase di demolizione. L’Aylesbury è un immenso complesso abitativo di edilizia popolare, nato per favorire l’edilizia pubblica per le classi meno abbienti. Si tratta di un complesso abitativo sorto attraverso il sistema Jespersen, ovvero attraverso la combinazione di prefabbricati in cemento armato che hanno dato vita a case tutte uguali in poco tempo. Un complesso che, all’esterno, appare grigio e minimalista nelle forme, senza fronzoli ed estremamente teso alla funzionalità degli spazi. Un complesso che, oggi, è stato demolito per far posto a nuove case private, dove l’elemento predominante è il verde pubblico, la sostenibilità e la razionalizzazione dello spazio. Un luogo chiamato Elephant Park, con case, ristoranti, luoghi per il verde pubblico e privato, in armonia con la natura. Una specie di paradiso terrestre in cui prevale l’intermodalità del trasporto, dalla bicicletta alla metro. Un passaggio importante non solo per il progresso sostenibile del luogo, quanto per la storia degli abitanti dell’Aylesbury Estate. Questo è ciò che il documentario di Calotta Berti intende riportare. Innanzitutto un passaggio esistenziale da parte degli abitanti dell’Aylesbury. Un passaggio non del tutto facile e non del tutto scontato. Il che ci pone dinanzi ad un paradosso, per cui le zone popolari che siamo abituati a guardare come fatiscenti e piene di piccola criminalità, in realtà sono anche luoghi comunitari, luoghi in cui le persone che vi abitano creano rapporti e contatti fra di loro, elementi rari in altre zone urbane. Il passaggio dall’Aylesbury ad altre abitazioni, dunque, significa rompere i legami di una comunità consolidata nel tempo, una comunità che, da una parte sembra essere segregata dentro un solo abitato, dall’altra che lotta per il diritto all’abitazione e alla casa. Una comunità inquadrata dalla Berti durante le mansioni quotidiane, fatta di saluti, di cordialità e di quattro chiacchiere scambiate durante i passaggi da un edificio all’altro. Si tratta, poi, oltre che di un passaggio comunitario, anche di un passaggio urbano: da un modo di intendere l’abitare sociale ad una privatizzazione delle case. Il passaggio urbano dell’Aylesbury, è un passaggio verso la gentrification, ovvero verso la costruzione di edifici sempre più sostenibili da una parte e sempre più anonimi dall’altra. Una rottura che è possibile colmare seguendo il procedimento metodologico con cui la Berti ha prodotto il suo documentario. Infatti, l’atteggiamento della Berti è exotopico, riprendendo la definizione da Michail Bachtin a proposito del romanzo polifonico. Secondo Bachtin, infatti, l’exotopia consiste in una posizione di ascolto delle varie coscienze, da parte del narratore. Questo genera ogni volta una differente prospettiva, in cui il narratore non offre il suo singolo punto di vista, interno o esterno alla narrazione. Come nei romanzi di Dostoevskij, a cui Bachtin si rifà quando parla di exotopia, ci troviamo dinanzi all’ascolto delle vicende degli abitanti dell’Aylesbury. Voci, impressioni, parole, gesti abitudinari, modi di vivere all’interno delle case popolari che si concludono, nel documentario, con una serie di chiavi appoggiate su un velluto blu. Si tratta delle chiavi lasciate dagli inquilini. Chiavi di case che non esistono più e che, secondo le impressioni di Berti, sono reliquie di un mondo che non esiste più, un mondo che non può essere dimenticato, perché è stato un mondo comunitario, un modo di vivere insieme. Nonostante tutto.