Devastazione
Le immagini che provengono dalla guerra ci raccontano di città distrutte, bombardate, a pezzi e “smontate”. Ma accanto alle città, ciò che ci ha impressionato maggiormente sono i corpi dilaniati e lacerati, uccisi o feriti, pianti, coperti da un telo o lasciati lì. Città e corpi, corpi di città e corpi in città, lo scenario di guerra apre un legame lacerante fra questi due elementi, accomunandoli sotto il titolo di devastazione. Città bombardate e ferite sul volto delle persone che fuggono sono simbolo di una devastazione che penetra fin nelle midolla del tessuto urbano ed umano. Allora, soffermiamoci a riflettere su questo termine: devastazione. A primo acchito ci rimanda all’immagine di un corpo lacerato, di edifici in rovina, di disperazione e di tristezza. Qualcosa di cui ci dispiace, che avremmo preferito non vedere o che neanche ci fosse. Eppure, se guardassimo all’etimologia de-vastare, ci suggerisce l’idea di uno spazio vuoto, di un’area vasta che viene smontata, pezzo dopo pezzo e in maniera pervasiva. Una distruzione non immediata e rapida, ma veloce e pervasiva. Un corpo devastato, come una città devastata hanno subìto un processo di corrosione interna, che si fenomenizza in un cedimento di alcune parti e alcune strutture, di un vuoto che viene lasciato lì dove prima c’era un pieno. Devastare è proprio questo. Non solo immagini di tristezza, non solo rovine ma processi che creano un vuoto lì dove prima era un pieno. Processi continuativi, ininterrotti e che difficilmente possono essere arrestati. Un tumore del corpo, una malattia terminale, una città bombardata o un Comune sciolto per mafia, sono tutti elementi che rimandano ad una devastazione, immagini che esprimono la produzione di vuoti dove si instaura la convivenza umana, dove si generano relazioni vive e vitali. Devastare, allora, è un creare un vuoto, dove il vuoto non significa spazio in cui non c’è nulla ma, al contrario, spazio del pieno inesistente, spazio dove è bandita l’esistenza. Un vuoto devastante, infatti, non entra nell’ottica del c’è e non c’è, quanto nella comprensione di una esistenza interrotta, una esistenza corrosa dal vuoto, rimandata all’inesistenza. Un lento scivolare nell’abisso dell’inesistente, in una zona d’ombra fra l’ente e il ni-ente. Devastare significa ricondurre l’essere umano e la sua socialità ad un vuoto per cui ogni azione risulta impotente dinanzi alle altre, risulta depotenziata e depotenziabile. La percezione della devastazione è guardare a tutto ciò che, con fatica abbiamo costruito, e accorgersi che è stato tutto distrutto. Impotenza che dice inesistenza, una zona d’ombra per cui non vale la pena far nulla, non vale la pena adoperarsi, non vale la pena neanche vivere. Tutto è inesistente, procede per inerzia, perché deve. E quando giunge questo momento di inesistenza, potremmo fuggire quanto vogliamo, ma ci accorgiamo che la devastazione la portiamo dentro, è lì. E se sopravviviamo alla catastrofe, dentro rimane un vuoto, una zona vasta aperta dallo squarcio della catastrofe. Rimane lì, come macerie in attesa di essere spostate, come ferite che diventano cicatrici. L’unica cosa che possiamo fare dinanzi alla devastazione è chiederci: che ne vogliamo fare di questo vuoto? E qui, l’immaginazione riparte, pensando all’essere umano di domani, alla città di domani. Risorgere.