ПРИП’ЯТЬ
Chi ha ascoltato l’ultimo album di Caparezza, come anche chi frequenta serie televisive o conosce un po’ la storia dell’Unione Sovietica, riconosce il nome di Прип’ять (Prip’jat). Famosa cittadina ucraina costruita per ospitare i lavoratori della grande centrale nucleare di Cernobyl. Una città costruita secondo tutti i criteri del regime sovietico e con un’architettura che riecheggiasse le grandi trasformazioni operate dal Partito Comunista nella sua corsa alla modernizzazione. Una corsa che ha avuto esiti tragici, come ci ricorda il disastro del reattore quattro di Cernobyl. Un disastro che ha lasciato Prip’jat in un deserto senza speranza, una città fantasma. Quasi cinquantamila persone, la maggior parte di nazionalità russa, sono state evacuate subito dopo l’esplosione del reattore nucleare, avvenuta nel 1986. Da quel momento Prip’jat è divenuta una città fantasma, oggi soppressa come cittadina e chiusa ancora nella zona di alienazione, in quanto cosparsa di radiazioni nucleari. Tuttavia, il fascino di questa città è nella sua simbolica, nel suo essere simile, troppo simile a molte delle nostre città, ancora abitate. Sembra che Prip’jat sia il simbolo di come rischiano di diventare le nostre città, inscritte in una parabola utopica che parte dalle intuizioni delle città operaie di Owen e Fourier. Grandi città costruite apposta per gli operai, per migliorarne le condizioni. Città moderne, città funzionali, città che potessero garantire un lavoro e che fossero molto vicine alle industrie e ai centri di produzione. Un’idea che ha visto crescere le città al fianco delle industrie, fino al punto che l’industria stessa ha inglobato la città. Prip’jat non sarebbe mai esistita senza un Cernobyl e l’esito di Cernobyl ha spopolato Prip’jat. Rapporti e grandezze, fra città e industria, che ad un certo punto non si equivalgono più, che in un momento cambiano di segno. Per cui l’industria non vive più in funzione della città ma, al contrario, è la città a vivere per conto dell’industria. E questo continua ad accadere, soprattutto con la costruzione dei grandi quartieri operai, i quali vivono a ridosso della fabbrica. Quartieri che, nel mito del comfort e della modernità, finiscono per diventare parassiti dell’industria stessa come del turbo capitalismo che continua a far espandere le nostre città. Dal sogno del progresso all’incubo del deserto, le città rischiano di essere questo e di divenire sempre più strumento funzionale alle grandi aziende, alle multinazionali, alla grandi fabbriche. Mostri vuoti, che finiscono per divorare se stessi. Ecco dove si trova tutto il fascino di Prip’jat, come se un incubo diventasse realtà. E destasse in noi meraviglia e paura. Un mix che può diventare impegno per un mondo differente, prima che tutto il mondo divenga Prip’jat.