Raccontarsi mangiando
Una città non vive solo di consumo di suolo o di risorse, anzi. Una città virtuosa, oggi, è quella in cui vengono ridotti al minimo i consumi, puntando verso un consumo di risorse che sia rinnovabile nel tempo, riciclabile e circolare. Elementi che riguardano anche e, in particolare, il cibo. Nel corso della storia, la città garantisce una maggiore sopravvivenza agli esseri umani in quanto assicura scorte di cibo, permette una accessibilità alle risorse che sarebbe più difficile e più complicato procurarsi individualmente. Oggi, poi, i supermercati e ipermercati mettono a nostra disposizione tonnellate intere di cibi e varietà che non basterebbero le future generazioni per consumarle. Ma è proprio sulla questione del cibo che si concentra la nostra riflessione. La rapida urbanizzazione del pianeta, oltre ad assicurare provviste di cibo per fette sempre maggiori di popolazione, produce sempre più diseguaglianze fra coloro che possono accumulare più cibo e coloro che, invece, si accontentano degli avanzi. La possibilità di accedere alle risorse non è garantita per tutti allo stesso modo, anzi è sempre e comunque il cibo uno dei fattori di maggiore diseguaglianza fra le varie classi sociali. La globalizzazione non ha portato cibo per tutti, come speravamo, ma ha portato molto cibo per pochi. Ed è in questo disequilibrio planetario che crescono ancora le nostre città, in cui il cibo diviene rifiuto, senza passare neanche attraverso il suo utilizzo, senza neanche essere mangiato. Ma questo eccesso di cibo non deriva da una maggiore coltura degli spazi, ma ad una agricoltura e un allevamento intensivi, diventati ormai insostenibili per lo stesso pianeta terra. In un recente articolo, comparso per Scienze del territorio, Paola de Meo e Fabio Parascandalo mettono in evidenza proprio questa peculiarità del sistema produttivo in agricoltura e in allevamento. Sistema che sembra non reggere non solo per il grande spreco di risorse ma anche per l’intensità delle culture. Intensità che viene messa a dura prova anche grazie alle monoculture presenti sul territorio. Immensi campi coltivati con un solo prodotto, in modo che possa essere sempre più competitivo sul mercato, scambiando così il mezzo con il fine, arrivando ad una produzione che riguarda il mercato piuttosto che il benessere delle persone. Sostituzione del mezzo con il fine anche per quanto riguarda la manodopera utilizzata, dal momento che molti dei lavoratori del suolo e degli allevatori sono sfruttati, sottopagati, invisibili. Cibi fatti per essere buttati, cibi fatti per essere competitivi, cibi globalizzanti che non dicono più nulla della cultura locale. C’è un forte nesso fra coltura e cultura, fosse anche solo per parentela etimologica. Coltura che forma una cultura, ovvero un modo di vivere con gli altri, un modo che narra anche la storia del territorio in cui si è nati, in cui si cresce. Secondo la riflessione Si scrive cibo (agro-ecologico e territorializzato), si legge democrazia (di luogo), di de Meo e Parascandalo, dunque, occorre tornare ad una riappropriazione del cibo, riscoprendo le peculiarità del proprio territorio. Ma non per tornare a forme primitive di alimentazione, ma per democratizzare i luoghi in cui viviamo. Tornare a prendere consapevolezza dei luoghi che abitiamo attraverso il cibo che mangiamo. Un primo passo verso la democrazia, dove non pochi mangiano a scapito di tutti, ma tutti raccontano chi sono, mangiando.