Percezione del tempo e costruzione della città
Ascoltando alcuni ragazzi e ragazze che vivono all’interno del quartiere Patalini di Barletta, si assiste ad una discrasia temporale. Un linguaggio che utilizzano molto spesso gli anziani e le anziane di un quartiere o di una città viene fuori dalle labbra di giovani fra i venti e i trent’anni. Uno degli esempi più palesi è nella narrazione di ciò che oggi c’è e che prima non c’era all’interno del quartiere, iniziando proprio dagli edifici. I primi abitanti del quartiere ricordano bene come, prima ci fosse soltanto campagna e pochi palazzi. Ricordano anche come non ci fossero neanche strade asfaltate e che tutto sia venuto con il tempo. Ma è interessante notare che i giovani e le giovani del quartiere hanno visto sviluppare intorno a loro il perimetro abitato così in fretta da far nascere una percezione temporale differente da quella di altri ragazzi e ragazze, come anche delle generazioni precedenti. Infatti, la differenza che loro notato è avvenuta nel giro di pochi anni, anche se per loro sembrano già tanti. Infatti, il quartiere è nato nel 2002 ma ha avuto una crescita esponenziale solo nel 2010. Se nella mia percezione temporale il passo è davvero breve dal 2010 ad oggi, per loro sembra che sia passata già una eternità. Sembra che il corso del tempo si sia così tanto accelerato da porre in essere una distanza abissale fra il presente e il passato. L’accelerazione dei processi, in altre parole, sembra aver condizionato non tanto la linea temporale quanto il modo di intendere il passato e il presente, con ripercussioni anche sul futuro. Una città che cresce rapidamente, dunque, dà una differente percezione temporale rispetto alla città che cresce lentamente, in cui i processi sono stati molto più lenti e partecipati. Infatti, se per costruire una cattedrale ci sono voluti, spesso, anche decenni, e quindi tutta la popolazione di una città vedeva crescere pian piano l’edificio, oggi le giovani generazioni hanno visto crescere intorno a loro palazzi e palazzi a vista d’occhio. Dunque, se ciò che non c’era appartiene al passato, ecco che ora ciò che c’è appartiene al presente. Il prima è interpretato in senso negativo, come vuoto, come assenza, ma anche come condizione nostalgica di una qualche presenza in ciò che prima non c’era. L’oggi, invece, è interpretato come una novità, come un novum, come un qualcosa che c’è e che apre la strada a nuovi processi e a nuove conoscenze. Ma se questo è il positivo del presente, in quanto positum, in quanto qualcosa che oggi c’è, lascia ancora nell’indeterminatezza il futuro, non come ciò che ancora non c’è ma come ciò che può esserci. Ma il ciò che può esserci nel futuro, lascia fin troppo spazio anche al ciò che può non esserci più. Se nel passato non c’era qualcosa, non è detto che ciò che oggi c’è domani potrà ancora esserci. E questo indeterminato, paradossalmente, determina già oggi non la crescita della città in quanto struttura urbana, quanto le relazioni all’interno della città. Relazioni che diventano sempre più liquide, dal momento che gli altri, oggi ci sono, domani non sappiamo. E mentre tutto cresce, ecco che tutto si allarga, tutto sembra allentarsi, estendersi senza più tendersi. Questo provoca angoscia, ma anche un indeterminato che resta ancora tutto da costruire, se solo fossimo consapevoli della nostra percezione temporale, se solo volessimo navigare il tempo.