L’antropologia periferica
La riflessione teologica, soprattutto, degli ultimi anni, sta portando sempre più in evidenza un profondo legame che sussiste fra l’antropologia e la città. Concentrando l’attenzione sul tema delle periferie, sembra che la teologia e la pastorale più illuminate, si stiano dirigendo verso un approccio geografico ed esistenziale al mondo contemporaneo, che potremmo definire inedito. Sappiamo già come l’enciclica di papa Francesco Laudato sì sia stata più letta e citata in ambienti esterni alle realtà ecclesiali che interni, ma oggi sembra che tutta la Chiesa cattolica abbia bisogno di un rinnovamento che parta dalle periferie. Dove sotto il nome di periferia, viene inteso un binomio esistenziale e sociale. In altre parole, le periferie sono il luogo dell’essere umano in cui lavorare, in cui aprirsi alle nuove realtà, in cui scorgere il fermento sociale dei cittadini. Interessante, allora, notare come le periferie diventino la chiave di lettura simbolica della realtà contemporanea. Se nelle epoche passate, il centro è sempre stato il luogo delle decisioni, il luogo da cui prendere le mosse, il luogo in cui intervenire, il luogo delle istituzioni, oggi con il crollo della credibilità nei confronti della politica e dei paradigmi democratici, ecco che le periferie assumono il volto di una nuova sfida non solo religiosa ma anche politica e, in sintesi, antropologica. Non si tratta, allora, solo di una dimensione teologica che possa legare l’annuncio evangelico e l’azione pastorale alle periferie, ma tornare a pensare l’essere umano come essere periferico. Dove per essere periferico, in prima istanza, significa assaporare il vuoto di un centro. Un centro che non è più preponderante nella storia ma che, al tempo stesso, ha fatto la sua storia. Questo è il centro pensato come storico, come luogo dell’immutabile, del passato, di ciò che è stato, nei confronti di un presente che è tutto cambiamento, che è perennemente trasformazione. Non si tratta, allora, di vivere un futuro di trasformazioni, ma rendersi conto che è il presente stesso, eternamente mutabile. Il primo passaggio, dunque, è fra il centro immutabile e le periferie mutabili, in trasformazione. D’altronde, uno dei tratti caratteristici delle periferie sono proprio i cantieri edili, che danno all’antropologia quell’idea del lavoro in corso, della trasformazione. Ora se questo vale per il mutabile presente, ancora di più vale per un futuro trasformante e imprevedibile. Le trasformazioni complesse pongono l’essere umano periferico dinanzi ad una continua scelta: soccombere all’interno del cemento delle trasformazioni lasciando che altri decidano al posto suo oppure rendersi parte attiva del cambiamento, proponendo, interagendo, creando comunità all’interno della realtà locale. Soprattutto optando per questa seconda scelta esistenziale, ecco che la donna e l’uomo periferici avvertono di essere loro i protagonisti e le protagoniste della trasformazione, scegliendo di non delegare più alla sola democrazia rappresentativa le scelte che riguardano il territorio. L’antropologia periferica, dunque, ci racconta di un nuovo essere umano, capace di lavorare su se stesso, di non essere mai definito e completo, ma sempre in fase di trasformazione, cambiamento, realizzazione. Immerso in una realtà che continuamente cambia e si evolve, generando nuovi significati.