Ipocondria e l’abitare nell’insignificanza
In questi giorni, sfogliando i video di Zerocalcare sulla quarantena, mi sono imbattuto nella sigla cantata da Giancane, dal titolo Ipocondria. Ascoltandola nel suo insieme e guardando anche il video, la canzone si rivela interessante non tanto perché tenti di spiegare scientificamente la patologia dell’ipocondria, quanto perché sembra legare questa specie di patologia psicofisica al destino dell’abitare. Fin dalle prime battute della canzone, l’ansia che cresce per la paura di avere una patologia, si lega indissolubilmente alla paura di morire fuori casa, in un abitare che non ci appartiene. L’ipocondria, infatti, stando alla definizione dell’Enciclopedia Treccani è: “Nel linguaggio medico, preoccupazione ansiosa, organicamente infondata, relativa alla propria salute o alla condizione di particolari organi interni”, in senso più ampio una malinconia un po’ più profonda che non sfocia nella depressione. Si tratta, in altre parole, di uno stato di ansia caratterizzato dalla continua paura di avere una malattia, di essere, in qualche modo, destinati a morire. In una società che ha unito il paradigma del “per sempre” alla conservazione di se stessi e al godimento di ciò che si è e si ha, risulta quasi ovvio che l’ipocondria sia estremamente diffusa. Una società abituata a far finta che la morte non ci sia, ecco che sviluppa una repressione nei confronti della morte, che disequilibra la quotidianità, la solitudine, la stessa casa dove abitiamo. Infatti, è interessante notare come, in una strofa della canzone si affermi che “So che se poi morirò sarò muto, pensavo di farlo in un po’ di decoro, ma non lo farò a casa mia, anche se poi casa mia è grande al massimo come uno sputo”. Allora, la mente fa subito al destino dell’abitare contemporaneo di molte famiglie, le quali vivono in case nuove ma estremamente piccole, ridotte ai bisogni essenziali. Case pensate per i bisogni primari come il mangiare, il dormire, il lavarsi, ma per il resto nulla, in quanto la maggior parte della nostra vita è al di fuori della casa, è nel posto di lavoro, nei locali pubblici, in automobile. Per questo motivo, la casa deve essere piccola ed essenziale, fatta non per starci tutta la giornata, ma per transitare da un impegno all’altro, da un luogo all’altro. Così, quando tutti gli impegni finiscono oppure quando siamo costretti a rimanere nelle nostre abitazioni, come è avvenuto in questi mesi di pandemia, ecco che l’ansia sale, che gli spazi non solo essenziali ma fin troppo stretti per viverci. Molti potrebbero affermare che le case piccole sono date dall’evitare il consumo di suolo e lo spreco di risorse. Tuttavia, una casa piccola non è tanto un deterrente al consumo di suolo, quanto alla qualità dello spazio vivibile. In altre parole, rimpicciolire gli spazi della casa non corrisponde ad un aumento della qualità dello spazio, del come viviamo. Infatti, concepire la casa come uno spazio funzionale al transito di una vita all’esterno, non ha permesso di pensare ad una qualità del luogo in cui abitare, ad un luogo che sia personale, oltre che funzionale. Per questo motivo, l’ipocondria non è direttamente causata dallo spazio in cui viviamo, ma è in qualche modo correlata al come viviamo gli spazi, al come organizziamo la nostra vita e al come scegliamo di abitare. La soluzione, dunque, non sarebbe l’aumento degli spazi come opposizione al consumo di suolo, ma riqualificare l’esistente, rigenerare ciò che è già costruito, per allargare lo spazio vitale e vivere un po’ meno depressi e un po’ più felici.