Hikikomori: sintomo della metropoli
La velocità dei processi urbani come della globalizzazione ha creato immense aree metropolitane in quasi ogni punto del globo. Ovviamente l’urbanizzazione non è la stessa ad ogni latitudine e longitudine, ma cambia, si evolve e progredisce o regredisce, a seconda delle prospettive con cui la si guarda. Infatti, uno dei grandi fenomeni collegati alla globalizzazione, in particolare nell’area giapponese e cinese già dagli anni Ottanta, è quello dell’hikikomori. All’inizio del nuovo millennio il fenomeno si è diffuso anche negli Stati Uniti e in Europa. Si tratta di una scelta fatta soprattutto da giovani e adolescenti, di isolarsi dalla società per vivere nelle proprie case. Si tratta di un fenomeno legato, secondo alcuni studiosi, a forme di sociopatia e viene curato attraverso l’utilizzo di psicofarmaci. Tuttavia, sembra essere un fenomeno che, pian piano, sta prendendo piede anche in Italia ed è legato, oltre che alla sfera psichica anche a quella abitativa. L’isolamento scelto da queste persone dato, secondo alcuni studiosi, sia da una società sempre più esigente sia dalla mancanza delle figure genitoriali, in particolar modo, la figura paterna. Tralasciando, per il momento, l’analisi sulla figura paterna e sulla evaporazione del padre, vogliamo affrontare, dal nostro punto di vista, la filosofia dell’abitare e dell’isolarsi. Infatti, che cosa caratterizza l’isolamento? Perché una persona che, almeno a livello simbolico, è contenitore di futuro e costantemente aperto alle possibilità di realizzarsi, scelga di ritirarsi dal mondo? La complessità dell’argomento non ci consente di tracciare un singolo percorso per quanto riguarda le motivazioni che spingono una persona a rinchiudersi in casa. Tuttavia, possiamo notare come la chiusura in casa abbia come prima conseguenza l’impossibilità di realizzarsi in una società che sembra chiedere troppo. Per società che chiede troppo, infatti, si intende una richiesta di standard alti, di confini e di competizione fra chi riesce e chi non riesce, una società che produce “scarti umani”, dal momento che è una società costituita non per tutti ma per pochi che possono accedere a beni e risorse materiali e immateriali. In altre parole, la simbolica delle possibilità espressa dai giovani si scontra con una accessibilità sociale che non garantisce lo stesso trattamento per tutti, una società che allarga la forbice della disuguaglianza giorno dopo giorno. Nello spaesamento generale, allora, ecco che il solo rifugio sicuro è la propria casa, lo spazio delle proprie sicurezza, il rifugio. Se il fenomeno dell’hikikomori, dunque, è estremamente recente, la paura e il bisogno di un rifugio sono strutture ancestrali del nostro vivere. Forse, prima di pensare ad ogni fenomeno in termini di malattia, ci occorre pensarlo in termini di sintomo, di campanello di emergenza globale delle nostre società e delle nostre città. Dinanzi a fenomeni come l’hikikomori, quanto ancora è rimasto di vivibile? Quanto di abitabile in questo mondo?