La città come non io
Parlare di città risulta spesso difficile per una sorta di errore di fondo, ovvero il pensare che la città sono io. Invece, se guardiamo la città o se proviamo a riflettere su di essa ci accorgiamo subito di una sorta di impossibilità e di impotenza nel racchiudere il tutto dentro uno schema, dentro un’idea, dentro un singolo concetto. Lo stesso David Harvey, nella sua introduzione all’Esperienza urbana, sottolineava il fatto che la città vive già di una doppia dimensione nello sguardo di chi vuole approcciarsi ad essa. Da una parte possiamo vedere la città dall’alto, dalla mappa o dalle forme architettoniche costruite nel corso dei secoli, dall’altra possiamo vederla dall’interno, passeggiare le sue strade, perdere la pazienza nel traffico di ogni giorno, trovare espedienti e organizzare la giornata in base al dove e al come ci muoviamo in città. Insomma, sembra sempre che la città non sia identificabile con una sola visuale e nemmeno con la visuale di un solo soggetto. La città è sempre molto di più, non solo nella complessità della sua organizzazione, ma anche nella impossibilità di poterne cogliere da soli l’essenza. Ci sono stati tentativi di pensare in solitaria la città, di dare un singolo punto di osservazione dell’organizzazione dello spazio urbano e sociale, ma ogni teoria si è rivelata essere la peggiore delle dittature e dei totalitarismi nella pratica politica. Per questo occorre iniziare a pensare la città come il ciò che non sono io. La città è il mio non essere, il mio continuo e perenne non poter raccogliere tutto, l’impossibilità che la città possa essere a mia immagine e somiglianza. Questo, tuttavia, non implica né una impotenza nello spazio urbano né tantomeno un disinteresse sul piano politico nei confronti della città. Anzi è quando pensiamo che la città sia io, sia il mio essere, la mia opinione, la mia visione delle cose che, in fin dei conti, ci distanziamo dall’essenza stessa della città come vivere con, vivere insieme. Abitare la città e non solo abitare in città, dunque, significa fare un passo indietro perché l’altro possa essere, perché gli altri possano essere. Ma per far essere gli altri occorre anche il nostro non essere, il nostro ritrarci, che fa nascere un vissuto comune, un vivere insieme, un permettere che anche gli altri possano esprimersi, possano contribuire, possano impegnarsi. E questo vale a tutti i livelli, dalla lotta al vandalismo all’abusivismo, ogni sintomo di malattia nella città soffre di questo immenso idolo egocentrico per cui tutto dipende da me, posso fare tutto in uno spazio che non sento mi appartenga ma che reputo mio, privato. Perché la differenza fra spazio privato e spazio partecipato è proprio in questo potere dell’io, nel tentativo continuo di sopraffazione, di occupazione, di possesso senza lasciare posto agli altri. Mentre la partecipazione implica che io prendo parte, che la mia visione sia parziale, che non riesca a fare tutto, che non sia il grande salvatore ed è in questo punto che il mio ego viene ferito, che io non posso essere mai completamente tutto. Ed è in questa ferita che nasce la città.