Filosofia urbana come pratica ermeneutica della città
Abbiamo parlato di anima della città nella relazione storica che l’arte ha intessuto con quella città. L’arte come capacità di rivelare l’anima di una città, il suo principio organizzativo, la sintesi di quella città. Esempio che approfondiremo è quello di Firenze con il Rinascimento, ma pensiamo anche alle diverse anime di Roma o al Romanico di Bari e così via. Eppure, questa riflessione sulla relazione fra arte e città rischia di essere monca e stereotipica se pensiamo ad una città come disegnata attraverso una singola forma d’arte, attraverso un singolo movimento artistico o un singolo linguaggio artistico. Abbiamo parlato di arte come ermeneutica dell’anima delle città in quanto capacità di mettere in rilievo un dialogo con la città stessa, ma l’arte da sola o una singola forma d’arte non è capace di ritrarre da sola tutta l’anima della città. Per questo occorre una sinfonia di linguaggi, una pluralità di ermeneutiche, una pratica continua e discontinua della città che, a nostro parere, sembra essere più compito della filosofia. Su questo punto vogliamo aprire questo intervento. Infatti, se l’arte ci consente di avere una chiave ermeneutica della città in cui si trova e con cui ha storicamente dialogato, è anche vero che per giungere ad una comprensione più profonda della città ci rimettiamo ad una disciplina che sappia fare sintesi, a cui nel corso dei secoli ci siamo affidati per avere una lettura ermeneutica più ampia. Questa disciplina è la filosofia e, in particolare, per il nostro ambito, della filosofia urbana. Un ambito della filosofia che permetta, dunque, di porre una visione d’insieme dei vari linguaggi utilizzati per descrivere e interpretare le città. Dal linguaggio tecnico-urbanistico a quello artistico-letterario, per riconoscere, analizzare, comprendere e salvaguardare una città occorre una pratica ermeneutico-filosofica che ne sappia cogliere l’anima, ovvero la sintesi storico-organizzativa della città stessa. Per questo motivo, l’arte ci permette di cogliere e di interpretare l’anima di una città ma accanto a questa occorre anche una filosofia che ci permetta di farne una sintesi, di ricomporre dei tasselli e dei frammenti della città. Fare a meno di questo approccio ci fa correre il rischio di una lettura banale, consumista, ideologica e conformista della città. Una città vissuta per pacchetti standard che ci consentono di coglierne solo degli aspetti ritenuti più importanti, ma non il come vivono gli abitanti, la cultura di un luogo, dal cibo al modo di costruire, dai percorsi quotidiani alle differenze sociali. Un approccio filosofico alle città che attraversiamo che coinvolga il cittadino come il turista nell’abitare degnamente una città.
Caro Matteo, da mero operatore urbano, condivido quello che tu scrivi. Ho sempre ritenuto la filosofia un ottimo aiuto per cercare comprendere il senso del mio-nostro operare.
L’ermeneutica della città, e direi del nostro esistere, e’ la pietra su cui appoggiarci per comprendere il nostro presente.
Ora, a voi filosofi, chiediamo di più’.
Dovete darci indicazioni, certamente opinabili, non più ermeneutiche ma teleologiche, per il nostro futuro, per la strada da percorrere sulla scia di quel che siamo e da dove veniamo.
Leggiamo insieme la realtà ma proiettiamola in ipotesi da sperimentare e provare a costruire insieme col pensiero e con l’azione.
Talvolta, nel valutare la fattura di una sedia, diciamo “è fatta ad arte”, riconoscendo un’aggiunta nel lavoro dell’artigiano che l’ha reso artista, facendo della sua opera non solo un bene funzionale. Quando questo processo riguarda una dimensione più ampia come quella di una piazza, di un quartiere, di una Città, non cambia la prospettiva. È l’arte d’interpretare che associa all’esercizio tecnico, quello del pensiero e quello del sentimento (qualcuno direbbe della virtù), facendo sintesi. Tutti, in questo tempo confuso, piuttosto deficitari.
In ambito infermieristico, riferendoci ai bisogni del paziente, ci hanno insegnato a parlare di approccio olistico. Prendere in carico a 360 gradi il malato, non limitandolo solo alla sua diagnosi. Mi è venuto spontaneo associare questo concetto al tuo articolo. Non so fino a che punto siano assimilabili gli strumenti di filosofi e infermieri. Il principio di fondo ammetto che stuzzica la mia suggestione.