Il dialogo dell’Ascensione
At 1,1-11; Sal 46; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20
Qualche settimana fa sono andato a fare formazione in una comunità parrocchiale sul tema della vocazione all’Oratorio. Il parroco e il vice parroco della comunità mi hanno chiesto di tenere un incontro ai ragazzi e alle ragazze della parrocchia su cosa significhi essere educatore o animatore di oratorio. Ebbene, abbiamo iniziato con un brainstorming su cosa ci veniva in mente ogni volta che parlavamo di oratorio. Ci sono state molte e molte parole che sono emerse: bambini, giochi, estate, caldo e così via. Al termine del brainstorming ci siamo accorti che, parlando di Oratorio, mancava completamente la dimensione della fede e tutto il corredo anche di vocaboli che costellano la dimensione di fede. Praticamente, ci siamo accorti che fra l’oratorio e il villaggio vacanze non esiste quasi nessuna differenza. Ed è da qui che abbiamo iniziato a lavorare, poi, verso una consapevolezza educativa dell’Oratorio ancor prima che ludica o di semplice intrattenimento. Ed è importante questa sottolineatura perché in questo noi ci giochiamo il nostro essere Chiesa e la relazione che viviamo con il mondo. Molto spesso, il rischio della nostra pastorale, è proprio quella di essere più attenti ad una dimensione numerica che fa abbassare il livello formativo fino a ridurlo ad una specie di babysiterraggio cattolico. L’importante inizia a diventare che i bambini stiamo insieme, che si divertano, che giochino in ambienti sempre più chiusi, protetti e tutelati. E se questa mentalità mondana inizia ad instillarsi e ad entrare, poco a poco, anche nell’organizzazione dei nostri oratori, altre esperienze e altre pratiche ci raccontano di un modo di educare divertente e, soprattutto, in relazione con il territorio. Altre modalità che, invece, fanno fatica ad entrare nella nostra visione della realtà e che, tuttavia, sanno di vangelo, sanno di una creatività che racconta un modo differente di essere al mondo, di guardare la realtà, i quartieri e i territori stessi. È questo uno dei sensi più profondi della solennità che stiamo festeggiando oggi: l’Ascensione. Dopo la resurrezione, dopo essere apparso ai suoi discepoli diverse volte, Gesù viene assunto in cielo. Non c’è un addio da parte di Gesù, come è stato prima di morire, ma un dia-logos, una distanza che pone una discontinuità dialogica. Gesù sale al Padre ma non ci lascia orfani, non chiude la sua relazione con noi ma ne fa nascere una differente ermeneutica, una differente interpretazione. La distanza che pone Gesù fra lui e noi, allora, non è un addio, non è una chiusura, ma un segno di discontinuità che fa nascere una nuova narrazione, un altro racconto. Per questo gli Atti degli apostoli nascono come secondo racconto ripartendo dall’ascensione. Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Il primo racconto consiste nel Vangelo, mentre il secondo racconto inizia ora, dall’Ascensione di Gesù. È uno spartiacque che cambia non il fondamento della relazione ma il dia-logo fra Cristo e noi che siamo sua Chiesa. Una distanza che fa germogliare creatività, che non imita la mondanità offrendo cose mediocri pur di far venire qualcuno, ma prova ad intessere una relazione con il quartiere, con ciò che è intorno, con le persone che desiderano ancora impegnarsi e che sono di buona volontà. Si tratta di guardare il mondo con occhi diversi, di non allontanarsi da Gerusalemme, dalle città degli esseri umani, testimoniando Cristo anche nella fatica di essere una comunità. Oggi, poi, ancora più che mai una scelta controcorrente in delle città costruite per semplici individui, come alveari in cui ognuno ha il suo tragitto, i suoi impegni, il suo macchinario in cui funzionare come ingranaggi. Una città completamente alienante in cui lavorare sul senso di comunità, oggi, significa vivere una scelta controcorrente. Ma è nell’ascensione che, come ci ricorda Paolo, cerchiamo di conservare l’unità della fede mediante il vincolo della carità, l’unità nella diversità, l’unità nei talenti e nelle differenti capacità di ciascuno. In una mentalità che tende a livellare, a serializzare, a far diventare tutti identici, ecco che la nostra prassi pastorale nasce dalla creatività ecclesiale in quella distanza che Gesù ha messo fra lui e noi. Una distanza che non significa lontananza, ma possibilità di rielaborare tutto ciò che è stato, tutto ciò che è avvenuto. Ecco, allora, il profondo significato del nostro essere nel mondo ma non del mondo. Un annuncio del Vangelo che sgorga dal dialogo fra Cristo e la sua Chiesa e che viene accompagnato da segni di prossimità, dalla capacità di essere vicini alle persone, di giocare e di divertirsi non in maniera individuale e individualista ma insieme agli altri, sviluppando capacità di interazione e collaborazione con le altre persone. In questo ritroviamo i segni dello Spirito, segni che sono sempre e comunque declinati al plurale. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno. Non c’è mai una carisma singolo, un dono individuale, una potenza magica che viene data ad uno stregone, ma una multiforme energia spirituale che transita dentro lo scegliere di essere comunità, capace di annunciare il Vangelo a tutti i popoli nel dialogo dell’Ascensione del Signore e senza abbassare lo sguardo proponendo cose mediocri ma tenendolo fisso in alto, perché lì c’è Cristo Gesù, l’Asceso al Cielo.