Īsā ibn Maryam
Īsā ibn Maryam – At 10,25-26.34-35.44-48; Sal 97; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17
Per ben 25 volte, il Corano parla di Gesù. Una notizia che ci può sembrare sconvolgente, alle volte, soprattutto quando ci basiamo su vari stereotipi sia delle nostre tradizioni ecclesiali sia delle precomprensioni che riguardano gli altri popoli. Gesù è citato per ben 25 volte e, spesso, viene citato come figlio di Maria, Īsā ibn Maryam. Nella tradizione araba, infatti, si viene riconosciuti attraverso il patronimico, attraverso un rapporto di filiazione che discende per linea paterna, mentre per Gesù, il più grande dei profeti del Corano, viene dato onore a Gesù come figlio di Maria, a cui viene dedicata una intera Sura. Se tutto questo ci sembra sconcertante è perché siamo abituati a guardare alla nostra religiosità un po’ come ad un compartimento stagno, come ad un qualcosa fatto di muri, confini, riti sempre identici fra loro e che non ci permettono di guardare alla varietà, alla profondità e al dialogo che, ancora oggi, è possibile fra le varie culture e religioni. Un dialogo che non è semplicemente opera nostra ma è dono dello Spirito. Un dialogo che nasce da una educazione dello sguardo, da una consapevolezza di fondo. Quella stessa consapevolezza che ha Pietro quando incontra Cornelio: “Anche io sono un uomo!”. Quando Cornelio si prostra dinanzi a Pietro, l’apostolo lo fa rialzare affermando che egli è un uomo come Cornelio, e a questo ci aggiunge: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. Una considerazione che, soprattutto oggi, ha da dire molto anche nei confronti delle pratiche religiose e del pericolo di utilizzare la religione come strumento di divisione, il rosario come arma per vincere sulle altre religioni, la chiusura nella forma di un certo cristianesimo che appartiene alla storia come pretesto per giustificare l’odio e il rancore. Dio non fa preferenze di persone e la spiritualità, la vita nello Spirito, diviene una educazione dello sguardo e allo sguardo di Cristo. Educarsi a guardare i segni dello Spirito già presenti nelle altre culture, come erano presenti già nella gente pagana e a cui mancava solo il Battesimo. L’essere Chiesa, sull’esempio di Pietro, significa scorgere i segni dello Spirito già presenti nel mondo contemporaneo, nelle altre culture, nei modi di pensare e di agire anche di chi non la pensa come noi. Ed è questo lo sguardo di chi ama. Il discrimine che anche Giovanni pone nella sua lettera non è fra un dentro e un fuori, fra chi segue noi o chi segue altri, ma fra chi ama e chi non ama. Perché chi ama è stato generato da Dio, perché Dio è amore. Un amore in cui rimaniamo perché ci sentiamo amati, un amore che non condanna l’altro perché è diverso da me, ma che nell’altro ritrova un frammento di eternità, ritrova un essere generati e continuamente rigenerati da Dio. Ecco perché quando amiamo stiamo dando prova del nostro credere in Dio, e le varie pratiche a cui siamo legati o sono nell’amore, o ci rendono più simili a Dio attraverso l’amore nei confronti delle altre persone, o diventano solo dei macigni che ci portiamo dietro. Dio è amore ed è questo il comandamento di Gesù. Non amare Dio, ma rimanere nel suo amore. Non solo provare un sentimento d’amore nei confronti di Dio, ma rimanere nel suo amore, scegliere di rimanere radicati nell’amore di Dio che ci fa diventare come Dio attraverso l’amore nei confronti delle altre persone, a qualunque religione, cultura, partito politico, condizione sociale appartengano. Un amore così grande che ci fa assomigliare a Dio e in cui scegliamo di rimanere ogni giorno, senza cedere il passo a situazioni di comodo, a realtà appartate o di piccoli gruppetti chiusi e stantii. In questo diventiamo amici di Dio, come lo sono i santi, in quella somiglianza a Dio che scava dentro di noi e che ci spinge a prenderci cura e ad essere curiosi anche delle tradizioni altrui, anche delle storie delle altre persone, anche di ciò che hanno vissuto e delle storie che hanno attraversato. Perché è l’amore che apre la mente, che ci fa respirare un’aria nuova, che ci fa essere amici, dove l’amicizia non è solo quello della mia cerchia, ma l’essere amici di Dio, vivere una relazione d’amore senza utile e senza ritorno, ma nella più alta forma di libertà. L’amicizia è il luogo dove amore e libertà raggiungono la forma più alta e più bella e dove la conoscenza dell’altro ci spinge ad approfondire il mistero di Dio, per rimanere nel suo amore e diventare amici di Dio.