La beata beanza
Gb 7,1-4.6-7; Sal 146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39
La via che Gesù apre, dopo aver insegnato nella sinagoga, è indirizzata verso la beatitudine. La vita beata è, come ci ricorda Agostino, ciò che possiamo massimamente desiderare. Tutti noi desideriamo essere felici e la perdita di questo desiderio implica l’aprirsi di tutta una gamma farmacologica che ci permetta di affrontare le giornate per non cadere nella disperazione. Senza desiderio, senza desiderio della felicità, in una società che offre tutto a portata di mano, siamo condannati a non vivere o, meglio a vivere come morti, per non vedere le nostre ferite, per mettere a tacere le nostre mancanze. Eppure la vita beata, la beatitudine, vede Gesù uscire dalla sinagoga ed entrare nella casa di Pietro. In una casa in cui è presente una donna malata, allettata. E il desiderio della beatitudine diviene capacità di rimettere in piedi quella donna, possibilità di tornare a vivere anche per quella donna, resurrezione. La beatitudine nasce dalla beanza. In termini medici, la beanza è la dilatazione massima di una ferita, la massima apertura di una ferita prima che strappi altro tessuto. Massima dilatazione che serve ad operare all’interno della ferita stessa, per curarla. Ci prendiamo cura delle ferite, delle nostre ferite, delle ferie degli altri, perché abbiamo il coraggio di mettere le mani nella beanza, di sporcarci le mani entrando nelle ferite degli altri, anche quando per fare questo occorre estrema delicatezza, gesti che partano da una esperienza amicale e profonda. Beanza è anche, in psicologia, il bisogno di completamente dopo la mancanza, dopo essere stati distaccati dalla madre. La beanza, insomma, è un concetto che ci offre una chiave di lettura interessante per la Parola di Dio di questa domenica. La massima apertura della ferita e in quella ferita cogliere una mancanza. È la dinamica che ritroviamo già in Giobbe, nella sua ferita disperante e disperata. Una ferita che lo vede logorarsi dentro, una ferita che fa fatica a rimarginarsi perché le è stato strappato tutto, le è stato tolto tutto. Un taglio profondo in cui Giobbe inizia a guardare dentro, in cui la malattia di Giobbe inizia a prendere piede e, con essa, l’invocazione a Dio. Una invocazione che nasce dalla disperanza della beanza stessa, da uno stato di pura illusione e di costante sconforto, di dolore in carne e spirito, che fa allungare la notte, che procede in una notte dove solo silenzio e domanda, domanda di silenzio e silenzio che fa germogliare una domanda riescono ad operare. È lo stesso atteggiamento di Paolo che annuncia il Vangelo per necessità. Una necessità che non si contrappone alla libertà, ma una necessità che nasce da una ferita rimarginata, da un distacco che fa nascere dentro una mancanza di Dio, una sete di Dio. Paolo, come ciascuno di noi, annuncia il Vangelo perché ha sete di Dio, perché desidera il Signore, quel Dio che è entrato nelle sue ferite e lo ha guarito, è entrato nella sua beanza, in quello spazio possibile, e ha suscitato in lui un desiderio profondo. Noi annunciamo il Signore perché cerchiamo il Signore, non perché lo abbiamo acquisito. E lo cerchiamo perché è entrato nella beanza delle nostre ferite e lì ha operato. Perché è desiderio di Qualcuno che manca nella nostra vita, di una persona che mi manca. Ecco perché Paolo riesce a farsi tutto a tutti, a diventare tutto per tutti, ad adattarsi ad ogni condizione e ad unire la necessità con la libertà. Perché ha fatto esperienza di una beanza in cui Dio è entrato, in cui Gesù si è fatto vicino. Ed è questo l’atteggiamento spirituale e pastorale che possiamo vivere ancora come comunità ecclesiale: operare nella beanza della vita, operare nelle ferite, nello spazio del possibile. Nel Vangelo Gesù non agisce come una macchinetta sforna guarigioni, ma ogni malato che gli viene posto dinanzi viene guarito nella sua beanza, nella sua ferita. Ed è nella ferita di ciascuno di noi che Gesù entra per sanare tutto il corpo. In questa logica possiamo comprendere anche tutto il Magistero ecclesiale di papa Francesco fino a Fiducia Supplicans, il cui intento, per quanto possibile e con i mezzi che abbiamo oggi a disposizione, è quello di entrare nella beanza delle persone, lì dove si trovano. Così, suscitare il bisogno di Dio, quella mancanza che accende il desiderio e la ricerca di un Gesù che ci precede, nelle nostre e altrui ferite.