Danzare nella pioggia
Is 40,1-5.9-11; Sal 84; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8
Fin dalle prime parole di questa domenica di Avvento ritroviamo l’annuncio del profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo”. E in questi giorni, parlare di consolazione, non può che significare ritornare, anche solo per un momento ai funerali di Giulia Cecchettin, alle parole di suo padre durante il funerale e a tutte quelle donne uccise, per il semplice fatto di voler essere donne e non proprietà di qualcun altro. E le parole di consolazione di Giulio Cecchettin sono state riprese da una poesia di Khalil Gibran: Il vero amore non è né fisico né romantico. Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà. Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno. La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia. Non sono parole di rabbia, di disgusto o di vendetta, ma parole trasformate in poesia, parole poetica in grado di trasformare il dolore in consolazione. Dove la consolazione non è un dirsi che è tutto passato, che non fa niente, che è andata così. La consolazione non è la rassegnazione, ma la consolazione è accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà. Consolazione è compimento di tutto, compimento che si rivela nella prossimità di Dio, di una promessa che diviene prossimità. Isaia ci richiama ad una consolazione che apre una strada nuova nel deserto dell’esistenza. Una strada nuova che non fa finta che il deserto non ci sia, che non fa finta che ci sono cose nella nostra vita che non vanno come vorremmo, che non sono andate secondo i nostri piani. Una strada che tiene conto di quello che è stato e di quello che non potrà mai essere di noi, una strada nel deserto. Di qui nasce la consolazione. Una strada nel deserto che non tracciamo da soli, ma insieme a quelle persone che ci rimangono vicino, insieme a quelle persone che nella nostra vita non se ne vanno, che rivelano la promessa di Dio nella loro prossimità. Una strada non difficile ma, una strada che spiazza, una strada che trasforma in realtà il nostro smarrimento e che trasforma la realtà che siamo, questa realtà che ci è dentro e dinanzi. Una strada che possiamo aprire solo e soltanto perché abbiamo ricevuto una lieta notizia, perché quel dolore che proviamo si trasforma in poesia, trova nel gesto e nella parola poetica un modo per esprimersi. È una lieta notizia che ci viene offerta, una lieta notizia nel deserto, un bagliore che si innalza nella notte e che diviene annuncio e rumore per gli altri e le altre, diviene cura, simbolo di un Dio che si prende cura di noi. È quella lieta notizia che tiene insieme giustizia e pace, verità e amore, come ci ricorda il Salmo. Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo. Allora, questo significa attendere. Significa, come ci ricorda Pietro, unione fra l’aspettare e l’affrettare. Dove noi non solo aspettiamo la venuta del Signore ma affrettiamo la sua venuta con la nostra condotta, con le preghiere e la vita santa. Una vita santa che non è una vita virtuosamente virtuale, una vita impeccabile e perfezionista, una vita così minuziosa da perdersi ciò che avviene nel mondo. Una vita santa è una vita che attraversa il dolore, che fa i conti e che è sensibile anche al dolore degli altri, che sente bruciare dentro il dolore del mondo e ancora spera che il Signore possa venire a mettere pace, che ci sia una forma di giustizia e si impegna per realizzare la giustizia. Non riguarda solo una giustizia al di là da venire che, oggi, ci trova inermi e oziosi. Ma una giustizia che trae il meglio da ciò che abbiamo. La vita santa non è avere il meglio di tutto, ma trarre il meglio da ciò che abbiamo, da ciò che viviamo, dalle altre persone, anche quando vivono situazioni di smarrimento, di difficoltà, di dolore. Anche quando non sappiamo neanche noi cosa fare e ci sentiamo smarriti e pensiamo che il Signore tardi ad arrivare. In ogni momento, in ogni respiro, in ogni giorno che passa, la vita santa, l’aspettare e l’affrettare la venuta del Signore significa trarre il meglio da ciò che abbiamo, da noi stessi e dalle altre persone. Ecco perché la vita santa fa rima con la felicità, con la vita beata. Una vita intera che diviene annuncio nel deserto del reale. Una vita, come quella di Giovanni Battista, che diviene essa stessa annuncio di prossimità della promessa di Dio. Una vita che fa rumore non perché si nutre di rabbia e di vendetta, ma perché vede spuntare all’orizzonte una promessa che si fa prossima, un Gesù che viene, Colui che viene dopo di me e che è avanti a me, come ci annuncia il Battista. Un annuncio che non ci fa sopravvivere alle tempeste della vita e girovagare come naufraghi in giro per il mondo, in attesa di nuove tempeste, ma ci fa danzare nella pioggia. Un annuncio che ci permette ancora di danzare anche nelle difficoltà, di aprire una strada nel deserto, di fare della nostra vita un annuncio di liberazione, un annuncio del Cristo che viene, una vocazione che diviene invocazione, una danza che si fa poesia, anche nel dolore della vita e nel deserto del reale. Una danza che invoca lo Spirito Santo, anche nella pioggia, perché questa terra che siamo possa ancora produrre frutto e questo Inizio del Vangelo di Gesù Cristo possa proseguire.
Magari fossimo in grado di affrontare la vita come una danza nella pioggia. Purtroppo siamo esseri umani con tutte le nostre debolezze e fragilità (l’uomo di vetro di Andreoli la dice tutta). Con riferimento a Giulia Cecchetin, sono convinto che l’uomo non é pronto, su un piano paritetico, nel rapporto, in particolar modo di coppia, con la donna. Perché proviene, sin da quando l’uomo è la donna sono comparsi sulla faccia della terra, da un rapporto di forza. Solo da qualche e decennio si sono fatte le prime leggi su un piano paritetico di genere. Non si può pretendere che abitudini e modi di fare, usati per millenni, si possono cambiare e sostituire con qualche decennio. Non siamo pronti. Mi si dirà: ma siamo gente civile col lume della ragione! Un commento di uno studioso su un bellissimo libro come IL SIGNORE DELLE MOSCHE dice: lo spessore di civiltà dell’essere umano é quanto lo spessore della pelle umana, trapassato quello, vengono fuori le cose più atroci e abominevole che l’essere umano é capace di compiere. È giusto che ci sforziamo di sperare questo nostri limiti, ma sono più che convinto che l’uomo non é pronto a sostituire il concetto di proprietà, nel rapporto di coppia, con un profondo rispetto. Un abbraccio don Matteo!
Grazie Matteo. Condivido. Solo in Dio si trova la serenità e solo facendosi portare per mano da Lui si scoprono nuovi sentieri, si aprono strade nel deserto. Quante volte ho letto e riletto, quando ero disperata, anni fa, quella frase: “Farò una cosa nuova…. aprirò una strada nel deserto”. Gli occhi mi si riempivano di lacrime di fronte a quella promessa. Il padre di Giulia ci ha dato una grande lezione, utile per farci tornare a contemplare l’unica promessa che conti davvero.
È capovolta la logica umana, un disperato può essere più felice di chi ha tutto.