Economie di comunione
Prv 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30
Nell’epoca del liberismo, del postcapitalismo che produce continuamente scarti umani, urbani e ambientali, da qualche anno ci sono riflessioni nuove e alternative sul tema dell’economia. Una di queste, pensata da Chiara Lubich, è l’economia di comunione. Una rete di imprenditori che utilizzano una parte dei loro utili a favore del bene comune, per l’eliminazione dell’esclusione, dell’aiuto alla miseria e alle povertà. Si tratta di una concezione rinnovata dell’economia oltre le spire del profitto capitalista, per cui il lavoro fornisce non solo profitto, ma un aiuto a tutta la comunità. È quella concezione del lavoro che ritroviamo sia nell’elogio della donna forte all’interno del Libro dei Proverbi che nel Vangelo, sul mettere a frutto i talenti. La donna forte è il simbolo di quella persona che attraverso il suo lavoro offre un aiuto non solo alla sua casa ma anche ai poveri e ai miseri. Una persona in cui l’altro pone la sua fiducia, che si affatica lavorando con le sue mani, che, come ci ricorda il Salmo: Beato chi teme il Signore, e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene. La donna forte è la persona che mette se stessa in ciò che fa e, attraverso questo suo rimboccarsi le maniche, non trova un profitto solo per sé, ma anche per gli altri, in modo particolare per i poveri e i miseri. Questo, se vogliamo, significa mettere a frutto i talenti. Quei talenti di cui ci parla il Vangelo e che vengono messi a frutto non solo per un profitto personale, ma per il bene di tutti. Questa è la bellezza dei talenti che hanno a che vedere con le nostre capacità. In altre parole, noi possiamo, siamo capaci di qualcosa e i talenti che ci vengono affidati li mettiamo a frutto, attraverso le nostre capacità, non solo per noi, ma per prendere parte alla gioia del Signore. Dove la gioia del Signore è nelle relazioni con l’altro, nell’attesa del Signore nella sua Chiesa. Quell’attesa che ci rivela come persone forti, per quello che sappiamo fare, per le opere che compiamo e che offrono un senso alla nostra storia, alle nostre relazioni, a chi abbiamo dinanzi. Il vero e più profondo problema del servo che non mette a frutto i talenti che li sono stati affidati, ma se li tiene per sé, per paura. Anzi, a ben guardare non li tiene neanche per sé, ma scava una buca e nasconde quel solo talento di cui aveva tutte le capacità per poterlo mettere a frutto. Lo nasconde e quel talento non frutta né per gli altri e neanche per se stesso. Questo è il grande peccato che, oggi, in molte maniere, possiamo vedere anche su noi stessi. Tanti talenti che vengono gettati, che non vengono sviluppati, a cui non educhiamo e non diamo spazi di possibilità, personali e sociali per essere messi in pratica. Eppure, la fortezza e il timore del Signore si rivelano da come mettiamo a frutto i talenti. Quel mettere a frutto che ci fa comprendere che siamo persone luminose, capaci di fare qualcosa e, al tempo stesso, capaci di irradiare luce per gli altri, di essere già nel giorno del Signore. Paolo ricorda alla comunità di Tessalonica che non siamo nel buio e ad aspettare la luce o che qualcuno accenda la luce nella nostra vita, ma che siamo già figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Noi siamo già nel giorno del Signore e possiamo scegliere se nascondere questa luce e sotterrarla oppure farla risplendere insieme agli altri. Il grande peccato nella nostra vita è proprio quello di non avere avuto l’occasione, la possibilità, il desiderio, l’educazione nel mettere a frutto i nostri talenti, ma nell’aver nascosto tutto per paura. Questo è il grande peccato che spegne la luce che in noi è già accesa, che ci chiama a lavorare con gli altri, a rimanere fedeli a quello che facciamo, nella quotidianità della nostra vita e delle nostre città. Un mettere a frutto i talenti che affretta il Regno di Dio, che inverte certi meccanismi di cui ci lamentiamo, che ci fa vivere di e nelle soddisfazioni e nell’abbondanza di uno spessore umano che si misura sulle lunghe distanze di una vita bella, spesa per gli altri, creando comunione.