La città metafisica
Man mano che continuo ad esplorare la città, a studiare i fenomeni urbani, a cercare di comprendere come mai gli uomini e le donne, ad un certo punto della storia, hanno sentito il bisogno di vivere insieme, mi rendo sempre più conto che la città, prima ancora di essere uno spazio, è una domanda. È la domanda, parafrasando Heidegger, che ci fa abitare poeticamente il mondo. E la città sembra mettere in questione, rilanciare continuamente la domanda sull’abitare poetico dell’essere umano, sull’abitare costruendo, facendo qualcosa, modellando e modificando l’ambiente in cui vive. In questo consiste l’abitare poetico che, a prima vista, sembra difficile trovare nelle nostre città. Ma cosa, allora, ci fa stare ancora insieme? Cosa permette alle nostre città di sopravvivere? Cosa ci consente ancora di abitare un mondo che brucia da ogni parte? Tutte queste domande non hanno una risposta definitiva, come non hanno una risposta univoca, come non hanno una risposta singola. Sono domande che rilanciano continuamente la questione della città, del nostro vivere insieme, delle differenti prospettive ermeneutiche che ci permettono di abitare le città. Perché, se volessimo porre la città come questione metafisica, per prima cosa affermeremmo che la città è plurale, che la città è fatta di prospettive, di immaginari, di interpretazioni, di narrazioni e di simboli. Un’idea metafisica della città, allora, è ciò che ci permette di porre in essere una serie di legami, di prospettive, di relazioni da tenere insieme. Possiamo pensare la città solo in maniera metafisica come tentativo continuo e interrogante di come le varie relazioni, i vari ambiti, i vari contesti e le varie narrazioni possano rimanere insieme, possano tenersi e interpretarsi vicendevolmente. Metafisica, allora, come ciò che si oppone all’ideologia, ad una visione statica della città, una visione monoprospettica, univoca, determinata e determinante della città. Una prospettiva ideologizzante che cerca di spiegare tutto della città secondo i propri canoni, i propri criteri, i propri gusti. È l’ideologia della lamentela, della chiusura al dialogo, della cesura del tempo passato come rifugio contro i tempi cattivi del presente, di coloro che sanno sempre cosa dire sulla città, come dirlo, investendosi di una autorità cattedratica. Ideologia che si contrappone alla metafisica, saccenza che si contrappone ad una nuova consapevolezza metafisica. Consapevolezza di una metafisica che pone in questione la città partendo da una postura umile, cercando di comprendere, studiare, capire i fenomeni, i processi e i sistemi che sono in atto in una città, insieme ad altre persone. Per pensare in maniera metafisica la città serve umiltà, serve lavorare con gli altri, serve riconoscere le differenti prospettive e competenze, linguaggi e contesti. Insomma, per pensare la città serve umiltà ed è l’umiltà ciò che rende fertile il terreno della politica, per costruire insieme la città che abitiamo poeticamente.
Questa volta sono solo parzialmente d’accordo con te. La metafisica urbana, l’abitare poetico debbono, per compiersi, oggettivarsi nel reale. La trasformazione evolutiva del reale si attua attraverso scelte, cioè attraverso selezione di possibilità. Le scelte non possono che essere ideologiche cioè ipotesi teoriche di soluzioni che si “realizzano” in frammenti esemplari di un sistema a cui si aspira. I frammenti ideologicizzati di azioni sul reale nascono certo con una volonta’ di assolutezza che però subira’ , nel suo attuarsi, il confronto dialettico col contesto e con la storia.
Ideologia che si riconforma e si ridimensiona.
Io ,che sono di altra generazione, ritengo che non bisogna buttare con l’acqua sporca il bambino, sottraendosi alla virtus di “proporre” l’affermazione di una “visione del mondo”. Certo non si deve assolutamente pretendere che la propria ideologia sia prevaricante, ne’ tanto meno dominante ma dialogante attivamente con altre ideologie.