Spazio, ermeneutica, destinazione
Pensare allo spazio, nel corso dei millenni, ha significato legarlo ad una dimensione geometrica euclidea. Lo spazio è sempre stato inteso come un elemento geometrico, come elemento asettico da riempire con linee e forme geometriche. Nel Novecento, con la scoperta della geometria non euclidea, con l’introduzione del concetto di infinito nello spazio finito, lo spazio ha assunto una prospettiva e una interpretazione nuova. Non più qualcosa da riempire ma un qualcosa che già in sé, con-tiene, tiene insieme qualcosa. Se questo è avvenuto per la geometria, maggiormente è avvenuto per le città. non più interpellabili come spazi soltanto geometricamente interpretabili, ma come idea che tiene insieme delle relazioni, delle forze, dei legami. Spazio conteso, spazio fatto di distanze, spazio generato e rigenerato attraverso una serie di interpretazioni che permettono di transitare dallo spazio astratto al luogo vissuto. Lo spazio, dunque, non è più qualcosa di vuoto da riempire, ma ciò che con-tiene degli elementi e, al tempo stesso, griglia per poter leggere i fenomeni tenuti insieme dallo spazio stesso. Riportato alla città, come spazio, questo ci risulta ancora più facile da comprendere nel momento in cui interroghiamo lo spazio urbano come spazio che tiene insieme, in maniera più o meno rigida, più o meno solida, più o meno distante, delle persone. Ulteriormente, poi, la situazione diviene sempre più complessa quando lo spazio urbano diviene spazio storicizzato, spazio sociale, spazio etnico, spazio abitato o spazio abbandonato. Ed è in questo spazio che ci interroghiamo e, al tempo stesso, interroghiamo lo spazio sulla sua destinazione. Infatti, la destinazione di uno spazio urbano nasce dalla domanda. Raramente, purtroppo, da una domanda su cosa sia lo spazio, quanto da una domanda su cosa farne di quello spazio. Una domanda sulla destinazione dello spazio che vede, prima ancora della domanda, delle risposte in campo fatte di forze, di interessi personali, di precomprensioni e pregiudizi antropologici e storici. Pensare ad una destinazione dello spazio, dunque, rischia di porre una determinazione dello spazio urbano a seconda degli interessi che sono già in atto, piuttosto che partire da una domanda su cosa sia lo spazio e su cosa sia quello spazio su cui stiamo riflettendo. D’altronde, riflettere sulla domanda su cosa sia lo spazio significa, oltre impiegare più tempo nella progettazione, anche ricercare una narrazione dello spazio stesso, una narrazione che non sia più astratta ma ermeneutica. Una narrazione, insomma, che sappia reinterpretare uno spazio che non è mai asettico o vuoto. Interpretare uno spazio significa saper far entrare dentro la riflessione la potenza simbolica dei luoghi praticati, gli immaginari, le pratiche, i percorsi quotidiani. Non solo una funzionalità urbana della città, ma una ermeneutica dello spazio che ci faccia abitare la città e che dipende da ciascuna persona che è consapevole di essere dentro uno spazio, in una destinazione mai chiusa e sempre interrogante.
Insomma ritrovare lo sguardo di un bambino che si interroga sullo spazio che lo circonda, prospettandosi un vissuto in esso in relazione agli altri. Da piccola vivevo in città ed apprezzai molto il consiglio trovato su un’enciclopedia dedicata alle ragazze (che mio padre mi aveva comprato): salutare tutti i lavoratori che si incontrano per strada mentre camminiamo. Ricordo che mi infuse fiducia , ottimismo, direi felicità salutare il giornalaio, lo spazzino, il panettiere, l’operaio che aggiustava la strada. Rispondevano tutti al mio buongiorno senza neanche meravigliarsi tanto… salutarsi sarebbe stata una cosa normale, evidentemente. E non so quanti già allora, negli anni sessanta, lo facessero. Osservare lo spazio e viverlo insieme sono dimensioni da recuperare. Più facili in un paese piccolo ma necessarie in una città. Dobbiamo provarci!!!!